Lo stato dell’aria

Di Bottarelli Mauro
15 Luglio 2004
Da priorità nazionale il caso Alitalia è stato derubricato a pratica marginale. Tutto risolto? Niente affato e la crisi rischia di affondare anche Malpensa, dove invece il business vola...

Fino a non più di un mese fa il paese era sull’orlo di una crisi di nervi per il caso Alitalia: tutti ricordano gli scioperi che paralizzarono i principali scali italiani e la corsa contro il tempo del governo affinché l’azienda non fallisse sotto il peso dei debiti. A pagare furono i vertici della compagnia di bandiera, Marco Zanichelli e Giuseppe Bonomi, cui subentrò l’ex ad di Trenitalia, Giancarlo Cimoli con il compito di presentare un piano industriale credibile per il salvataggio, anche attraverso un prestito-ponte del governo di 400 milioni di euro, dell’azienda. Ma qual è lo stato di salute di Alitalia oggi? Identico a un mese e mezzo fa, con l’aggravante che non è ancora stato presentato il famoso piano industriale e che soprattutto i tempi per evitare la bancarotta stanno drammaticamente accorciandosi. Al momento di andare in stampa con questo numero di Tempi un cauto ottimismo sembra aleggiare attorno all’ipotesi che la Commissione Ue possa passare al vaglio il dossier relativo al prestito salva-azienda nella sua riunione del 20 luglio, scongiurando quindi – in caso di parere positivo – il rischio crac. Né i giornali né i palazzi della politica sembrano però troppo preoccupati della cosa. Nulla è cambiato se non l’atteggiamento nei confronti della crisi: ieri meritava strepiti e prime pagine, oggi il silenzio. Ma come stanno davvero le cose “in aria”?

UN PASSO INDIETRO… PER GUARDARE AVANTI
Per capire qualcosa del settore del trasporto aereo e della crisi che lo sta investendo bisogna fare un passo indietro negli anni Ottanta, anzi nel 1978, quando gli Stati Uniti decisero per un cambiamento di mercato del settore attraverso un primo tentativo di liberalizzazione. L’impatto che ebbe questa decisione fu decisamente violento, tanto è vero che sul finire del decennio un colosso assoluto come la Pan Am fallì letteralmente. Il motto reaganiano era chiaro: ognuno stia in piedi con le proprie gambe, basta con le compagnie statali. E in effetti il contraltare ad epiloghi traumatici come quello della Pan Am fu la nascita di nuove compagnie che, sviluppatesi negli anni, ora portano i nomi di colossi come American Airlines e NorthWest. In Europa questa ventata liberale arrivò a metà degli anni Novanta, quando l’Ue disse basta alle compagnie di bandiera, ovvero ad aziende sviluppate dai governi. Alcuni paesi hanno subito cercato di adeguarsi e di entrare nel libero mercato, compiendo come primo, doloroso passo grandi tagli che interessarono British Airways, Klm e Lufthansa. Anche il vecchio continente pagò con due vittime il contraccolpo: la belga Sabena la Swiss Air fallirono, salvo poi rinascere con altri nomi. Alitalia, invece, restò al palo. All’epoca la gestione di Domenico Cempella colse però un’intuizione che giungeva dai freddi dati e la sviluppò in un piano che si basava sull’oggettiva constatazione che il 70 per cento dei biglietti era venduto nel Nord Italia, quindi appariva inutile, nonché anacronistico e controproducente far passare i viaggiatori da Roma. Nel frattempo nascevano però nuove compagnie aeree come AirOne e Noman, situazione che sancì di fatto la fine del monopolio Alitalia sulle tratte redditizie come la Milano-Roma. Il mercato, che lo si volesse o meno, si apriva e le sfide interne e internazionali richiedevano risposte: ecco quindi prendere corpo il progetto di Malpensa, il grande hub del Nord, la porta verso l’Europa e il mondo. Una sfida che però, per Alitalia, partiva ad handicap come un brutta partita di golf, visto che all’epoca la compagnia, per il limitato numero di velivoli su cui poteva contare la flotta, non aveva possibilità di accontentare e soddisfare la potenziale domanda di uno scalo finalmente con due piste. Serviva un socio: ecco quindi partire la partnership con l’olandese Klm, ottima perché essendo la compagnia di uno Stato piccolo, quindi con quasi nulla necessità di coprire tratte interne, poteva mettere a disposizione aerei di grandi dimensioni adatti per tratte intercontinentali. Inoltre l’aeroporto di Amsterdam era saturo, quindi Klm poteva posizionare alcuni velivoli su Malpensa, tutti con destinazione intercontinentale. Sembrava tutto perfetto. E invece…

L’ERRORE FRANCESE E LA MALPENSA DIMEZZATA
L’accordo con gli olandesi saltò, Cempella perse il posto e nacque l’accordo con Air France. Peccato che l’interesse della compagnia francese fosse quello di portare passeggeri a Parigi e non certo quello di sviluppare il traffico aereo italiano. Tanto più che l’Italia nel rank europeo è il paese dove si viaggia meno dopo la Grecia, quindi rappresenta un mercato al quale tutte le compagnie aeree guardano con attenzione poiché tuttora in via di sviluppo. Per questa ragione si decise quindi di rendere operativo il progetto Malpensa 2000 e di creare un vero hub. Ora, visto l’utilizzo ormai quotidiano di questo termine, è meglio spiegare una volta per tutte il suo reale significato. Esistono infatti due tipi di aeroporti. Il point to point come Linate, Manchester, Barcellona e Lione, cioè un business airport dove si va e si viene in giornata spostandosi su tratte brevi: strutture simili hanno una tipologia di traffico che presuppone un numero molto alto di voli al mattino e alla sera, con ampie fette di livellamento nel corso della giornata. C’è poi il tipo hub and spoke, normalmente chiamato hub, ovvero una tipologia di aeroporto che ha bisogno di tre caratteristiche precise e imprescindibili: un bacino territoriale economico e sociale molto forte (Milano e Lombardia da questo punto di vista sono al terzo in posto in Europa, dopo Londra e Parigi, addirittura prima di Francoforte), una rete di infrastrutture capace di sviluppare un traffico aereo molto alto oltre a una rete di collegamenti importanti con la città di riferimento (vero tallone di Achille di Malpensa visto che, nonostante gli sforzi e le pressioni in tal senso della Regione, la Bre-be-mi e la Pedemontana non sono ancora operative) e soprattutto una compagnia aerea che faccia hubbing, cioè che faccia dell’aeroporto il suo hub. Questa, nel caso di Malpensa, non può che essere Alitalia. La quale, in effetti, aveva cominciato a operare in tal senso, con voli come il Bari-Malpensa che portavano nello scalo varesino passeggeri che da qui partivano per tratte intercontinentali come Los Angeles, Bangkok, Johannesburg e così via. Ma, come in un incubo nell’incubo, arrivò l’11 settembre a innescare una crisi enorme di tutto il mercato del trasporto aereo alla quale la nostra compagnia di bandiera sommava una pesantissima situazione economica precedente.

CONTI IN ROSSO E POCO CORAGGIO
Ancora oggi, con l’azienda sull’orlo del fallimento, di tagli del personale (vera voce di incidenza nei bilanci da pelle d’oca dell’azienda (altro che i 200 milioni di risparmio attraverso operazioni di «reingegnerizzazione dei processi sugli acquisti» annunciati da Cimoli) in casa Alitalia non se ne parla proprio, nemmeno riguardo quei 2mila esuberi di cui si parla da almeno un lustro. Questo ha prodotto almeno un miglioramento del servizio? Neanche per sogno, ha solo prodotto debiti a fronte di tariffe fuori mercato. Il che vuol dire che l’allegra gestione statalista di Alitalia, estranea a ogni logica industriale, viene poi di fatto scaricata sugli utenti. Tant’è che malgrado le direttive comunitarie stiano cominciando a produrre risultati importanti in termini di abbassamento dei costi per gli utenti, Alitalia controlla oltre il 60% del mercato con costi fuori dal mercato europeo ed è stata presa di mira dall’authority di Tesauro per le sue “relazioni pericolose” con vettori minori come Meridiana o Volare e per certe “relazioni particolari” con alcune agenzie di viaggio che sono costate alla nostra compagnia di bandiera multe per due milioni di euro.
Che fare, quindi? Ricominciare da zero (e cioè ricominciare dai tagli, visto che 22mila dipendenti non li hanno nemmeno British Airwayse Lufthansa messe assieme) o fallire: che nel caso di Alitalia rappresenta lo sbocco naturale di un percorso folle, ma in quello di Malpensa significa gettare al vento un’opportunità a dir poco storica. Ma per sviluppare serve un piano, che Cimoli ancora non ha reso noto e che soprattutto siamo certi non conterrà la premessa-base, ovvero che è sciocco avere un’azienda a Roma quando il mercato è a Milano. Campanilismo? Leghismo? No, buon senso.

CON LA TESTA FRA LE NUVOLE
Lo stesso che continua a mancare a chi non si mette in testa che a Malpensa serve una base di armamento. Già, perché ogni mattina alle 9 allo scalo varesino continua a giungere da Fiumicino il già denunciato mitico volo AZ1022: a bordo non uomini d’affari o turisti, ma gli equipaggi di 20-25 voli Alitalia – quasi tutti intercontinentali – che giungono a Milano per poi decollare verso le varie destinazioni. Perché trasferirsi ogni giorno da Roma a Milano? Semplice, a Malpensa – hub intercontinentale – non esiste una base di armamento per gli equipaggi, quindi bisogna attendere che piloti, assistenti e hostess arrivino tutti i santi giorni dalla capitale. Seconda perla è quella invece che riguarda l’hangar per la manutenzione degli aeromobili attualmente in costruzione alla Malpensa. I lavori, costati 70 milioni di euro, dovrebbero terminare entro agosto di quest’anno e per il mese di settembre è attesa la concessione in gestione dell’infrastruttura: ovviamente la scelta prioritaria di Sea, l’azienda che gestisce gli scali milanesi, è ricaduta su Alitalia, nonostante ci sia già una fila interminabile di società private e altre compagnie aeree pronte a fare i salti mortali per accaparrarsi la gestione del prezioso – e fruttuoso – hangar. E Alitalia che fa? Nicchia, mentre nel frattempo il vettore Eurofly ha già avanzato la propria proposta e “prenotato” l’ambitissima struttura. Da notare inoltre che Sea vanta qualcosa come 80 milioni di euro di crediti verso Alitalia, quindi tutta questa voglia di “fare favori” non ce l’ha: ha, però, senso di responsabilità per quanto riguarda il futuro dello scalo.

L’ALIBI LOW COST E IL FUTURO CHE NON C’E’
L’ultima grande piaga d’Egitto del settore, almeno per quanto riguarda le major, è stato l’ingresso sul palcoscenico delle cosiddette linee aeree low cost, la cui incidenza negli ultimi due anni è stata oggettivamente elevata. Lo scaricare sulle varie RyanAir o EasyJet tutte le responsabilità, o quasi, è però un alibi bello e buono: queste aziende non fanno ciò che si può definire piena concorrenza per il semplice fatto che si tratta di un traffico diverso. Innanzitutto le low cost operano in orari o in aeroporti particolari per abbassare i costi: si parte a mezzanotte o alle 6 del mattino da Orio al Serio per andare a Londra, soluzione che va bene a uno studente in vacanza ma non a un uomo d’affari o anche soltanto a una famiglia, oppure si parte alle 4 del pomeriggio da Linate per andare sempre a Londra ma fornendo un unico volo in tutta la giornata. Inoltre appare assurdo nascondere la testa sotto la sabbia e negare che le due compagnie britanniche Bmi e British Airways, adottando la stessa politica di prenotazione via Internet usata dalle low cost, riescono spesso e volentieri a prospettare proposte molto appetibili nei periodi di intenso traffico sulla tratta Milano-Londra e Roma-Londra, garantendo un maggior numero di voli e soprattutto l’atterraggio a Heathrow invece che a Luton o Stansted. Risparmiare, quindi, si può. Di più, nonostante entrambi i colossi low cost abbiano già prenotato un centinaio di nuovi velivoli, le loro azioni nel bilancio del gennaio 2004 sono letteralmente crollate: primo perché le piccole linee pagano più di altre l’aumento vertiginoso del costo del petrolio e secondo perché, a conti fatti, soltanto l’aeroporto di Londra garantisce una fetta di mercato importante (40% del totale) mentre sia Parigi (12%) che Francoforte (18%) che Milano (5%) rappresentano mercati marginali. Questo perché le low cost nascono per rispondere alle esigenze del cosiddetto traffico Vfr (visiting friends and relatives), ovvero i trasferimenti tra Gran Bretagna e Irlanda creati per dare un’alternativa al traghetto agli emigranti che vanno a trovare le famiglie.
Quindi sarebbe il caso di smetterla di parlare di tutta questa incidenza, soprattutto alla luce del fatto che la stessa AirOne fa fatica a coprire la tratta Milano-Roma visto che le grandi aziende continuano ad andare con Alitalia per la maggiore frequenza dei voli e per la flessibilità dell’offerta. Il problema Alitalia sta nel manico, ovvero nell’enorme costo dato dalla voce “personale”: il piano industriale di Bonomi in effetti voleva dare in outsourcing alcune attività ma questo, alla luce dei dati, non può bastare. Anche perché, sopravvivenza a parte, gli avversari stranieri stanno già attrezzandosi sull’investimento del futuro, ovvero i voli high cost. Cosa sono? Sono aerei completamente business class, dove per viaggiare si spende tanto ma in compenso si gode di servizi e prestazioni top a bordo. Un mercato ovviamente di nicchia, con clientela selezionatissima, che però pare avere ampi margini di prospettiva: dopo l’11 settembre, infatti, i controlli di sicurezza si sono fatti molto stringenti, creando di fatto lunghissime attese e code per l’imbarco. Sono in molti a essere pronti a pagare per avere una via preferenziale di ingresso e sale riservate. Di più, molti passeggeri di business chiedono come condicio sine qua non prima dell’acquisto del biglietto il livello di inclinazione della poltrona. Insomma, il mondo va avanti e Malpensa non può aspettare che Alitalia abbia finito il proprio maquillage. Un dato su tutti: Sea ha creato un ufficio apposito per acquisire sempre nuovi clienti per lo scalo, un team di “rappresentanti” che, invece di girare con la valigetta piena di brochure di enciclopedie, gira il mondo a dire: «Cara Thai Pacific Airlines, vuoi venire in Europa? Vieni da me invece che a Francoforte e ti garantisco tutta questa serie di agevolazioni…». Nell’ultimo anno e mezzo sono approdate a Malpensa quaranta nuove compagnie e lo stesso volume del traffico parla di uno scalo sano: più 6% nei primi sei mesi di quest’anno contro il 5% di media europea. Vogliamo farci del male ancora per molto?

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