Lo snowborder che voleva l’eutanasia vola ai Giochi Paralimpici
La prima volta che lo spagnolo Víctor González salì su uno snowboard aveva solo quattro anni. Gli altri bambini stavano imparando ad andare in bicicletta, lui a surfare con una tavola sulle creste innevate. Va da sé che da quella tavola finisse per non scendere più, tanto da decidere di aprire, nel 2000, una vera e propria scuola, la “Pura Vida School”, per surfare sulle cime dei Pirenei e sulle onde del Cantabrico nelle Asturie. Una passione che il prossimo 4 marzo lo porterà con la sua tavola fino a Pechino, dove sarà l’unico atleta a rappresentare la Spagna ai Giochi Paralimpici.
La sua presenza non era affatto scontata, e non per l’incidente che per i medici l’avrebbe lasciato tetraplegico nel 2015. Ma per quell’idea, all’inizio appena accarezzata e poi così invadente, di farla finita. Come avrebbe potuto lui, il surfista delle montagne, restare inchiodato a un letto per il resto della sua vita?
Inchiodato al letto «volevo morire»
Era il mese di febbraio del 2015 e le vette del Parco Nazionale di Aigüestortes erano avvolte dalla nebbia quando il ragazzo si schiantò contro un muro di neve. Non sapeva, mentre l’elicottero lo trasportava all’ospedale Vall d’Hebron, che si era fratturato le vertebre, lesionato il midollo spinale: tetraplegia, fu la prima prognosi dei medici che eseguirono subito un intervento di artodesi spinale, non potrai più camminare.
Il tempo dimostrò che avevano torto, ma «all’inizio fu durissima, ho pensato al suicidio. Ero a letto a fissare il soffitto e riuscivo solo a ripetere “Perché proprio io?”». L’eutanasia non era ancora legale in Spagna e González non si dava pace: «Non volevo passare il resto della mia vita sdraiato a letto senza poter muovere un solo muscolo, senza poter parlare, condizionando la vita della mia famiglia. Volevo morire per non essere d’intralcio ai miei cari. Ero davvero convinto di voler morire».
Venti giorni per muovere un alluce
A salvargli letteralmente la vita fu proprio l’impossibilità di farla finita, l’assenza di una alternativa. Era immobilizzato, non riusciva a muovere nulla dal collo in giù, e l’immagine della mamma che si prendeva cura h 24 del suo corpo inerte gli dava il tormento. A tal punto che un giorno, proprio come in un film di Tarantino, González decise almeno di provarci, a guardare se stesso come lo guardava chi gli voleva bene, concentrandosi sul suo alluce e chiedendosi non più “perché io?” ma “a quale scopo?”. Gli ci vogliono venti giorni per riuscire a scorgere un movimento impercettibile. Altrettanti per muovere le altre dita, l’intero piede, le braccia. Dopo due mesi, per tre secondi, riuscì a sollevarsi.
Trascorse un intero anno in ospedale, impegnando ogni secondo possibile nella riabilitazione, mattina, sera, di nascosto, appena poteva, per restituire qualcosa alla famiglia e agli amici che non smettevano di aiutarlo. Il resto è storia. Non muoveva ancora bene la parte sinistra del corpo e non riusciva a stare in piedi per più di pochi metri quando un amico lo vestì, infilò i guanti, lo assicurò agli attacchi e issò sulla tavola da snow esortandolo a “scivolare”.
«Sono vivo perché sono caduto nel letto giusto»
Esercizi, palestra, elettrostimolazione per i muscoli atrofizzati, bici elettrica (donata da una celebre azienda colpita dalla sua storia) diventarono necessarie come l’ossigeno alla sua ripresa. Anche sportiva: nessuno, nel settore, avrebbe puntato un soldo per vederlo in pista e nessuno lo puntò. Il ragazzo impegnò di tasca propria tutto quello che aveva per viaggiare e partecipare a competizioni sportive per atleti disabili e conquistare la fiducia delle istituzioni, entrare a fare parte di una squadra che rappresentasse il suo paese.
Eppure nulla, di tanta fatica e milioni di cadute prima di rialzarsi e finire in nazionale andò perduto, grazie alla “sua” squadra personale: «Quello che ho fatto io lo può fare chiunque, ma devi “cadere” nel letto giusto, con il sostegno della famiglia, del medico giusto». Víctor González lo ripete ad ogni intervista: non fosse stato per i suoi cari, i suoi amici, medici disposti a nuovi consulti e referti, non sarebbe qui. Non avrebbe dato vita alla fondazione “Don’t try it DO IT” per aiutare persone che come lui hanno subito lesioni midollari ma meno “attrezzate” e aiutate a reagire, non avrebbe gareggiato nella Coppa del Mondo di Para Snowboard né ai Giochi Paralimpici di Pyeongchang nel 2018, non deterrebbe il titolo di campione spagnolo di Snow Cross. Non sarebbe pronto a volare a Pechino oggi. Fosse stato legale farlo, avrebbe chiesto (e forse ottenuto) di morire.
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