«Il sangue fa audience». Con gli occhi vuoti dello Sciacallo di fronte alla nostra umanità diseducata

Di Pietro Piccinini
16 Novembre 2014
Il film di Dan Gilroy è una violenta immersione nel mondo piatto e senza morale del giornalismo moderno. Ma oltre la critica sociale del precariato e del cinismo dei media, c’è qualcosa di più inquietante a rendere familiare il famelico reporter Louis Bloom

«Cosa sono l’assunzione e le possibilità di fare carriera per la generazione di Lou quando le opportunità sono svanite a causa della globalizzazione del salario minimo? [Lou] Vive in un mondo di crescente disparità economica. Porte chiuse. Praticantati che creano servitori per necessità. Questa è la realtà del lavoro per Lou e altri milioni di persone». (Dan Gilroy, regista de Lo Sciacallo)

Louis Bloom è un ragazzone senza lavoro, senza curriculum e senza famiglia che tira avanti a Los Angeles rubacchiando e ricettando rame e roba simile per pochi dollari. È «un ladro del cazzo» Lou, come lo apostrofa rifiutandogli un impiego il boss della discarica a cui ha appena piazzato qualche chilo di metallo sgraffignato chissà dove. Ma è alla disperata ricerca di un’affermazione. O di soldi. Di una opportunità qualsiasi. Nemmeno lui a dire il vero sa bene di cosa. La svolta arriva una notte – capita tutto di notte in questo film, il cui titolo originale non a caso è Nightcrawler – quando Lou, vagando col suo catorcio anni Ottanta per le strade semideserte della megalopoli californiana, si imbatte in un incidente. C’è una donna ferita tra le lamiere dell’auto, i soccorsi la stanno estraendo con fatica dall’abitacolo e proprio in quel momento si precipitano sul posto un paio di sciacalletti che riprendono la scena per vendere il servizio alla tv. «Il sangue fa audience», gli buttano là. Ed è come un’illuminazione per Lou. Chi meglio di lui può andare a caccia di sangue e di audience nella notte di Los Angeles? Nessuno. Infatti la sua vita comincia a cambiare. Lou si procura una radio per intercettare le frequenze delle forze dell’ordine, si trova un assistente messo peggio di lui e ben presto diventa lo sciacallo numero uno in città. Vorace come nessun’altra, la creatura si arricchisce rapidamente, la sua attrezzatura diventa sempre più sofisticata e la sgangherata Toyota è rimpiazzata da una fiammante Dodge Challenger. Grazie al rapporto un po’ (parecchio) morboso che instaura con Nina, direttore di un tg locale, Lou spingerà il suo spericolato rovistare nel pulp sempre più in là, oltre ogni limite morale e legale. Riuscirà a cambiare tutto e tutti, lo sciacallo. Solo lui resterà sempre lo stesso.

lo sciacalloAl cinema dal 13 novembre, il film è stato presentato un po’ dappertutto come «una classica storia di successo all’americana». Ed è lo stesso regista Dan Gilroy a spiegare di aver voluto rovinare la quiete della nostra “civiltà dell’immagine” instillando «la terribile consapevolezza che il vero orrore non è Lou, è il mondo che lo ha creato e che lo premia». E davvero lo Sciacallo è lo specchio della generazione del precariato e del cinismo dei media. Nel film c’è il giovane disoccupato e affamato (fin nell’aspetto: Jake Gyllenhaal è dimagrito più di dieci chili per impersonare Louis Bloom) e c’è la giornalista in carriera ossessionata dagli ascolti del tg e dall’idea – leggermente macchiettistica, per la verità – che bisogna drogare lo share apparecchiando a qualunque costo servizi sulla «criminalità che si insinua nei quartieri benestanti». Tutto questo c’è in abbondanza, tanto da risultare più che altro un orpello moralisticamente corretto e alla lunga anche un po’ molesto.

Non è l’elemento di critica sociale a rendere coinvolgente il film. Non basta la precarietà del lavoro a spiegare l’alienazione del protagonista. L’assistente, Rick, è un povero spiantato pachistano che non è solo disoccupato, ma è pure senza fissa dimora. È perfino più precario di Lou, eppure a differenza sua conserva un minimo di senso delle cose, se non altro per istinto di sopravvivenza. Tocca a lui ogni tanto tentare, invano, di riportare Lou nella realtà ricordandogli che «sono morte delle persone».

Anche dire che è il mondo a fare orrore, non Lou, è in fondo un non dirla tutta. La verità è che Lou era già uno sciacallo, già prima che quel mondo orribile gli offrisse una carcassa in cui affondare i denti. Il punto è che nella sconfinata discarica in cui fruga lo Sciacallo non si riesce a distinguere niente e anche i rari reperti di verità sembrano essere fuori contesto. Gettati nella spazzatura assieme al resto. «Devi imparare a trattare le persone come esseri umani», contesta a un certo punto Rick a Lou. È un’idea che dovrebbe brillare come un bengala nella notte selvaggia di Los Angeles, il problema è che si accende mentre i due, chiusi in macchina, fanno la posta a un criminale per consegnarlo appena possibile alla polizia e riprendere la scena, contrattando nel frattempo promozioni e aumenti di stipendio. È tutto fuori fuoco.

Bene, male, giusto, sbagliato, bello, brutto. Tutto è confuso, tutto è uguale, tutto è piatto agli occhi di Lou. Come in internet. «Io studio molto online», rivendica Lou in una sequenza chiave del film. «Non ho una cosiddetta educazione formale, ma in rete puoi trovare di tutto se cerchi abbastanza». Lo Sciacallo ripete a macchinetta gli slogan imparati nei corsi di automiglioramento trovati nel web. Impanca discorsi deliranti sulla «crescita professionale» al povero Rick, mentre quello se la fa addosso perché intorno alle loro insulse telecamere la gente spara e si ammazza. Perfino quando ci prova con le donne Lou sfoggia parole scopiazzate da qualche parte online, rovinando l’atmosfera con espressioni tipo «relazionarsi fisicamente».

Quello che costringe lo spettatore a partecipare all’involuzione del protagonista (con angoscia o con repulsione, a seconda delle sensibilità) è una domanda che si fa sempre più assillante man mano che lo Sciacallo si spinge in avanti. Come si salva un nerd precipitato in questo mondo cinico che gira intorno al nulla? Sì, fa orrore la Los Angeles primitiva rappresentata da Gilroy. È il vuoto spinto, la legge della savana. Ma ancora più tremendo è che lo sradicato Lou non abbia difese là dentro. Zero legami, nulla a cui attaccarsi e (dunque) nessuna capacità di giudizio. Cosa vale, nella vita dello Sciacallo? Dov’è la sua umanità? Qual è il confine della follia? Di sicuro non sono le quattro chiacchiere scombiccherate imparate in un corso di gestione aziendale online. Né l’astratto «codice etico» invocato a un certo punto dal caporedattore del tg scandalizzato dalle immagini truci offerte da Lou.

Il tema de Lo Sciacallo è il nulla che ci circonda, ma più ancora il nulla che è diventato la nostra vita e si è mangiato la nostra umanità diseducata. E certo che il confronto tra l’uomo precario formato web e la generazione che lo ha preceduto è devastante. «Ormai parli come Lou», protesta un collega con Nina, la direttrice del tg sempre più in balìa dello Sciacallo. «Credo che Lou stia ispirando tutti noi a fare del nostro meglio», replica lei. La definitiva benedizione di «un futuro – ha scritto il critico del New Yorker – in cui niente non sarà più mostrato». Tranne la realtà.

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1 commento

  1. Saverio

    E’ l’America…
    Se non fosse per il fatto che una parte tutt’altro che irrilevante della “ortodossia” sunnita esibisce deformità che non hanno nulla da invidiare a quelle del mondo americano – anzi, è caratterizzata da una rozzezza sanguinolenta che supera persino quella statunitense – direi che quando l’Islam violento accusa gli USA di essere il Grande Satana, non ha tutti i torti.

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