L’insulsaggine di un’università che non sa cosa insegna, ma lo insegna in inglese

La questione non è nuova ma merita attenzione perché sarà sempre più sul tavolo. Si tratta della tendenza, crescente in molte università, a organizzare corsi di laurea totalmente in inglese, per giunta con l’incentivo di un sostanzioso sconto sulle tasse. Bene ha fatto il presidente dell’Accademia della Crusca a segnalare i grandi rischi di queste iniziative: che la capacità di tenere lezioni in inglese faccia premio sulla competenza disciplinare e che si aggravino le drammatiche carenze dei giovani nel dominio della lingua nazionale. È opportuno aggiungere qualche considerazione sulle “vere” motivazioni di queste iniziative, per dissolvere il sospetto che l’opposizione a essi si riduca a una difesa gretta e nazionalistica della lingua italiana.
È noto che la preparazione scientifica dei giovani nella quasi totalità dei paesi occidentali sta subendo un declino drammatico. Ciò è testimoniato dal fatto che, nelle università statunitensi, i migliori studenti di PhD (in prospettiva, i migliori matematici, fisici, biologi, eccetera) sono giovani indiani, cinesi, sudcoreani, cingalesi, eccetera, insomma provenienti da paesi dove si fornisce quella solida preparazione disciplinare che ora è considerata da noi un fattore “repressivo” e “impositivo”. Le università statunitensi – per la loro elevatissima qualità organizzativa e didattica – rappresentano comunque una grande attrattiva e, reclutando i nuovi soggetti “immigrati”, possono sperare di mantenere i loro livelli elevati. Da noi c’è chi ha pensato che, dato il livello mediocre degli studenti nostrani, conviene puntare su soggetti provenienti dall’estero, prevalentemente dall’Asia. Ma noi non possiamo aspirare a offrire strutture neppure lontanamente paragonabili a quelle statunitensi. Come compensare questa patente inferiorità? Tagliando le tasse. L’altra carta che possiamo giocare dipende, paradossalmente, dal disastro del nostro sistema universitario: poiché le prospettive di reclutamento di nuovi ricercatori sono nulle, un docente indiano potrebbe essere incentivato a spedire in Italia un suo allievo, contando sul fatto che certamente ritornerà a coltivare la scienza nazionale. Quindi, nella migliore delle ipotesi, raschieremo il fondo del barile, ovvero gli studenti meno capaci, meno motivati e meno ambiziosi. Otterremmo così il risultato di far precipitare ancora più in basso il semianalfabetismo dei nostri studenti in cambio di queste modestissime prospettive e della conoscenza mediocre di un inglese povero, di un gergo tecnico privo di spessore culturale. Già, perché quel che si dimentica è che la scienza, sebbene sia un’impresa basata sulle relazioni internazionali, se non si riduce a mera tecnica – e i suoi testi al livello di manuali d’istruzioni di apparecchi – ha bisogno di una cultura che può essere sostenuta soltanto da una lingua ricca e strutturata. La scienza si è sempre radicata nelle culture nazionali, pur tendendo all’internazionalismo. Alla fin fine l’inglese è una lingua letteraria per gli americani o gli inglesi. E a noi cosa rimarrebbe?
Chi non è preoccupato è Tullio De Mauro, secondo il quale il vero problema non è l’inglese ma l’analfabetismo di ritorno. «Sono trentasei anni che sappiamo che nella scuola media non si insegnano la scienza, la matematica, senza che nessuno abbia fatto nulla». Noi avevamo sentito dire che la scuola era stata gestita dal suo amico Luigi Berlinguer, da molti esperti a lui vicini e che lui stesso era stato ministro dell’Istruzione. Si trattava, con ogni evidenza, di notizie false e tendenziose.

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