Eugenio Corti ha un cuore da leone, che l’ha riportato indietro della ritirata di Russia nella seconda Grande Guerra e che gli ha concesso di correre gli ultimi cinquant’anni di storia ritraendola ne Il Cavallo Rosso. Una luce, un tono inconfondibile che si potrà scoprire giovedì 26 agosto, a Rimini, alle 11:30 presso la sala 2, quando verranno drammatizzati alcuni sui testi, da La terra dell’indio a Processo e morte di Stalin (ultime novità uscite presso le edizioni Ares). Quel giorno monsignor Maggiolini, l’onorevole Massimo Caprara e Ettore Bernabei presenteranno Eugenio Corti al pubblico dei presenti, mentre Davide Rondoni e Cesare Cavalleri condurranno l’incontro con il magistero paterno e inestimabile dell’autore del Romanzo del nostro secolo.
Noi, per intanto, incontriamo Eugenio Corti nel suo attivissimo “buen retiro” tra i verdi colli di Brianza: di lassù, lo scrittore della ritirata di Russia del ’42 e dell’epica del Cavallo Rosso vede più lontano e più profondo di noi, immersi nella calura lattea della città. Avremmo voluto intervistarlo “a proposito della situazione presente”, con tanto di registratore e bloc-notes. In realtà siamo in otto amici a varcare il cancello del bel giardino sulla soglia del quale Corti ci attende con il sorriso dei suoi occhi azzurri e della sua barba candida.
Cattolici dal pensiero non-cattolico L’intervista prende le mosse da lontano, da molto lontano. “I nostri problemi iniziano col Rinascimento, quando non è rinato un bel niente: a rinascere fu solo il paganesimo, ma non quello romano per il quale valeva la massima apud nos omnia religione reguntur. Col Quattrocento invece la religione comincia a essere allontanata dal cuore degli studiosi europei, perlomeno in alcuni ambienti intellettuali. Dopodiché verrà Lutero e il protestantesimo, poi l’Illuminismo: la cultura occidentale che noi adesso abbiamo viene da quelle idee lì. Poi ancora Hegel, la sinistra e la destra hegeliane, cioè Marx e Nietzsche: senza questa filosofia tremenda, i grandi massacri del Novecento non si spiegano. Ci rendiamo conto che con la filosofia della morte di Dio è venuta la morte dell’uomo, e su grandissima scala?”. E i cristiani dov’erano quando avveniva tutto ciò? “Il mondo cristiano aveva resistito bene con il Concilio di Trento: sino al tempo in cui io ero bambino posso dire che la Chiesa fosse figlia di quei padri, come qui in Brianza della grande azione di san Carlo Borromeo. Però nel nostro secolo molto è cambiato, e il risultato ultimo è quello prospettato da Paolo VI quando nel 1977 diceva a Jean Guitton che all’interno del cattolicesimo sembra predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”.
Bisogna tornare a “fare il cristianesimo”
Dunque? “Io non so se sia opportuno sottolineare queste cose terribili davanti a voi giovani di belle speranze, soprattutto perché il gregge da tenere in piedi non è ancora così piccolo. Una cosa è certa: non si viene fuori se non ci diamo da fare. Per questo esistono degli ausili che Domeniddio ci dà. All’interno della Chiesa c’è l’Opus Dei e c’è Comunione e Liberazione che si fa sentire; noi, vivendoci in mezzo, non ne vediamo l’importanza storica, che è grandissima e che la storia della Chiesa dei prossimi secoli saprà. Mi rincresce di non aver conosciuto monsignor Escrivà, il quale già in vita si vedeva che era un santo: un po’ come mi è accaduto di provare con Don Carlo Gnocchi, cappellano degli Alpini”.
Che cosa ne sarà della Chiesa dopo questo eccezionale Papa? “Credo che il prossimo pontefice non sarà italiano: nel collegio cardinalizio siamo poca cosa, conosciamo poco dei cattolici del resto del mondo. I laicisti fanno qualche nome, più per blandire qualche ecclesistico che per vero interesse; a loro non importa niente della Chiesa. Comunque sia, noi sappiamo una cosa: che il Signore sarà con noi sino alla fine”. Potrà ancora per molto la nostra Europa dell’Euro trascurare la propria sorella d’oltrecortina, l’Europa dell’Est? “Quella dell’Europa Orientale è una situazione tragica. Il comunismo ha fatto una cosa enorme: un danno dentro ogni singolo uomo. Sono come ‘svuotati dentro’. I loro paesi sono ridotti a macerie. Avrebbero avuto bisogno che l’Ovest trasferisse di là un senso di vita, un ordine di verità… invece si sta esportando solo il nostro edonismo. Una cosa è certa, che la spiritualità russa tornerà ad essere”.
Anche in politica solo Cristo ci può salvare E la Russia di Solzenicyn? “Solzenicyn è stato un grande profeta: la sua vicenda tra Est e Ovest è chiarissima, nessuno l’ha davvero ascoltato. Ha però assolto la sua funzione. Se la Russia riprenderà a consistere… per ora è tabula rasa, non c’è niente, le intelligenze, dopo Vassilj Grossman, sembrano spente. Dopo il comunismo è venuta la barbarie radicale e le mafie dei neocapitalisti; chi comanda sono i grandi ladri del vecchio regime e i raccomandati che accumulavano ricchezze ai danni della nomenklatura. L’ho visto nel mio viaggio in Lituania nel ’95: lo stato non trova gente con la mentalità della ricostruzione, la polizia e l’esercito sono allo sbando, il retaggio comunista sull’economia è drammatico. E pensare che sono ricchissimi di risorse naturali: nel settore minerario sono potenzialmente maggiori di Usa e Canada messi insieme. Nel 1942 quando andai nel Donez come sottotenente di artiglieria, dovemmo scavare piccole buche attorno al cannone. Bene, il carbone si trovava a una spanna sotto l’erba: come facevano allora a essere poveri? Era Stalin che li rendeva miserabili”.
Lei ha scritto infatti l’opera Processo e morte di Stalin che ebbe una forma di censura dal mondo culturale italiano, tutto intento a esecrare il solo Hitler, col risultato che oggi non capiamo più la storia, se è solo “storia del male assoluto”… “Infatti. Prenda ad esempio la Germania: la gente, le nuove generazioni, non hanno mica capito cosa sia stato il nazismo. Perché? Perché la cultura dopo il ’45 è stata una mezzacultura, ha impedito una vera analisi delle cose, e si presenta al mondo come cultura dominante e derivante dal cristianesimo… In Francia, a settembre, mi vogliono fare una festa: ecco, lì il laicismo è ancora più imperante e inflessibile e perciò i cattolici francesi sono migliori dei nostri, perché il cattocomunismo è stato arginato. Chi è cristiano sa di dover essere soverchiato”. E cosa può significare questa situazione per ciascuno di noi, per il nostro destino personale e comune? “Io mi ricordo i pensieri di Sant’Agostino che ho letto al Liceo, la sua concezione cristiana della storia: ci sono due città antagoniste, la città terrena e la città di Dio. La prima obbedisce al ‘principe di questo mondo’, il diavolo, i cui attributi sono sempre i medesimi: omicida fin dal principio, padre della menzogna e scimmia di Dio. I totalitarismi del XX secolo l’hanno mostrato chiaramente. Però dopo ogni periodo di prevalenza di questa, torna la stagione della città di Dio: senz’altro verrà di nuovo, e voi la vedrete. Per conto mio, ho visto sia l’una che l’altra. In Russia nel ’42 ho visto nazisti e comunisti; ma poi ho visto anche la città celeste: dopo il ’48 c’è stato un momento in cui veramente l’Europa venne ricostruita da politici di ispirazione cristiana. La gente affidava loro il compito, alla Dc italiana, francese, belga, tedesca: ricordo che Adenauer chiudeva i discorsi dicendo che ‘del resto, anche in politica, soltanto Cristo ci può salvare’. Sono stati anni belli, il bel sogno dimenticato di un’Europa libera secondo una società cristiana”.
Antagonisti alla filibusta Eco-Ulivista E poi? “E poi è la storia che tutti conosciamo. Gli ultimi paolotti (termine dialettale indicante i credenti praticanti, ndr) li ho visti scomparire solo nell’aprile ’96, sconcertati quando anche alcuni ambienti ecclesiali consigliarono di votare l’Ulivo dei post-comunisti”. Una cultura che dunque si è autoliquidata. Ma sul piano culturale, come ci orientiamo nel labirinto di adesso? “Io direi di leggere, leggere, leggere. Degli autori del passato, chi mi ha più colpito è stato Omero. Sin dai banchi del Liceo san Carlo, quando lo frequentai prima della guerra. Subito dopo, l’allievo omerico più vivo: Tolstoj. Anche il Manzoni, per la lingua. Certo che la letteratura italiana contemporanea è come un albero malato che non produce più niente: gli scrittori italiani si sono messi su una strada sbagliata, scrivono molto meglio di quelli di cent’anni fa, soltanto che, nel loro nichilismo, non scrivono niente”. Come sarebbe a dire, il niente? “Purtroppo. A meno di non essere ‘della filibusta’, come gli Umberto Eco che prendono in giro il lettore. Sono arrivati al nihil e tolgono spazio ad altri, che dovrebbero pubblicare e non possono… chissà quanti capolavori sono ancora nel cassetto…”. E agli insegnanti cosa consiglia? “Di essere molto severi coi testi. Sfoltire le cose peggiori: Calvino e Moravia sono negativi, scrissero opere di scarso valore. Almeno D’Annunzio aveva un certo valore letterario. Io direi di illuminare gli aspetti negativi degli autori del nulla e di passare oltre: compito discriminante del professore è la verità”.