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L’impatto dell’impatto zero

Quanto costerà alle imprese e ai mercati finanziari il processo di decarbonizzazione avviato dai governi di tutto il mondo per contrastare i cambiamenti climatici? C'è il rischio di un conflitto globale

Alessandro Sansoni
04/03/2017 - 1:00
Economia
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Nel settembre 2015 Mark Carney, il governatore della Banca d’Inghilterra, alla vigilia dell’accordo di Parigi (Cop21), con il quale i governi di tutto il mondo si sono impegnati ad assumere una serie di misure allo scopo di contenere il surriscaldamento climatico del pianeta entro i 2 gradi centigradi, adottando una serie di misure per attutire l’impatto ambientale del sistema produttivo globale, metteva in guardia circa la possibilità di un “rischio di transizione”, di natura sistemica, per la stabilità del mercato finanziario, legato a un improvviso e significativo collasso dei valori patrimoniali delle grandi major del settore energetico, a causa del processo di decarbonizzazione avviato dalle politiche di contrasto al surriscaldamento climatico.

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Di fronte ad una simile eventualità, il Consiglio per la stabilità finanziaria che riferisce al G20 (il Financial Stability Board, Fsb, istituito nel 2009 per monitorare i mercati e prevenire situazioni “tipo Lehman”) ha avviato una task force per sviluppare un quadro d’informazione sul rischio climatico per gli operatori di mercato. In realtà, altre autorità finanziarie hanno sin da subito sminuito il potenziale dei rischi di transizione, alla luce della capacità del mercato di scontare sul lungo termine il prezzo del rischio. La preoccupazione è legata all’eccessiva valorizzazione finanziaria attribuita alle società energetiche legate alle attuali fonti di energia per lo più di provenienza fossile (carbone, petrolio e gas) e alla repentina svalutazione che le loro riserve potrebbero subire attraverso la creazione di un sistema produttivo e di consumo contraddistinto da un più basso tasso di emissione di anidride carbonica. Da questo punto di vista, uno studio dell’IHS Markit di Londra diffuso nell’ottobre 2016 ha messo in evidenza come il prezzo straordinariamente basso degli idrocarburi, da un paio d’anni a questa parte, abbia già rappresentato una sorta di “stress test” naturale per l’industria dell’Oil&Gas, con un impatto piuttosto limitato sul sistema finanziario globale.
Su questo tema è intervenuto recentemente il centro studi e ricerche di Morgan Stanley, con un paper pubblicato all’inizio del mese di febbraio dell’anno in corso. Il documento si intitola From Molecules to Electrons. What Energy Transition Means for Oil & Gas Investors e si rivolge proprio agli investitori, cercando di fornire loro alcune indicazioni utili a comprendere meglio le problematiche che il mercato borsistico presenta sul fronte dell’energia.

Sostituzione a ritmo lento
Secondo Morgan Stanley le modifiche strutturali all’orizzonte per il sistema energetico, evidenti alla luce dei sempre più cospicui investimenti che le grandi corporation anche di paesi produttori di idrocarburi come l’Arabia Saudita stanno effettuando in direzione delle energie rinnovabili, non sortiranno effetti significativi a breve e medio termine. La storia ci insegna, infatti, come la rimodulazione di un sistema industriale sul fronte energetico è sempre avvenuta su tempi molto lunghi: prendendo il 1850 come punto di partenza è possibile verificare come fino a quel periodo le fonti di energia primarie fossero costituite da biocarburanti (legno, olii vegetali, carbone, eccetera); nei 60-70 anni successivi, invece, il carbone riuscì a occupare quote sempre più considerevoli di utilizzo. Negli ultimi 100 anni le fonti leader sono divenute il petrolio e il gas, ma la sostituzione ha avuto un ritmo molto lento e, in ogni caso, è stata contrassegnata dall’aumento vertiginoso della domanda di energia a livello mondiale che non ha mai conosciuto battute d’arresto. Oggi che l’esigenza è contenere le emissioni di “gas serra” e sostituire queste due fonti con quelle “rinnovabili” (vento, sole, maree, eccetera) è plausibile ipotizzare che questa terza fase della storia del consumo energetico presenti tempi abbastanza lunghi, nell’ordine almeno dei 40-50 anni, prima di giungere a una messa in secondo piano degli idrocarburi.

Secondo Morgan Stanley la questione non è legata soltanto all’implementazione dell’offerta da fonti rinnovabili e, dunque, alla costruzione di impianti eolici, fotovoltaici, eccetera, ma anche al rafforzamento della domanda strutturale di energia rinnovabile. Non si tratta solo di un problema di costi. È l’intero sistema di consumo energetico mondiale che oggi presenta una modalità di utilizzo dell’energia di tipo molecolare, laddove per sfruttare al meglio le fonti rinnovabili ne sarebbe necessario uno basato sull’elettricità.

Una rivoluzione della domanda
Più elettroni e meno molecole, insomma, se si vuole dare corso ai buoni propositi di contrasto al surriscaldamento del pianeta. In realtà non è così facile. Negli ultimi quarant’anni il consumo di elettricità è aumentato di soli 8 punti percentuali, laddove dal 1975 il consumo globale di energia è aumentato costantemente di 2 punti percentuali ogni anno. È dunque necessaria una rivoluzione tecnologica non solo sul lato dell’offerta, ma anche su quello della domanda, il che richiede soldi e tempi lunghi che, secondo Morgan Stanley, possono rassicurare gli investitori sul fatto che la transizione avverrà molto gradualmente, con grande soddisfazione di paesi come la Russia che basano non soltanto la propria sopravvivenza economica, ma anche la loro potenzialità strategica sulla produzione di idrocarburi. Non a caso Mosca nelle ultime settimane ha gettato sul piatto della bilancia tutto il proprio peso politico e geopolitico in sede Opec per convincere gli altri paesi membri a rivedere al ribasso la propria intensità produttiva e porre fine allo “stress test” cui accennavamo prima e determinare un rialzo del prezzo di gas e petrolio.

La verità è che sulla decarbonizzazione del sistema produttivo mondiale si sta giocando una partita cruciale per gli equilibri geostrategici, geopolitici e geoeconomici globali. La stessa vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, che ha segnato una divaricazione senza precedenti tra gli orientamenti politici della lobby delle armi (filo-Clinton) e quella del petrolio (filo-Trump), è parte di questo conflitto, che vede già da tempo la Germania particolarmente impegnata sul fronte della Green Economy al fianco della Cina che attraverso il suo ultimo Piano quinquennale intende realizzare un immenso programma di elettrificazione del territorio di quello che fu il Celeste Impero. Uno scontro che ha tra i suoi campi di battaglia anche quello culturale e, più in particolare, quello delle griglie interpretative del contesto economico e finanziario e delle previsioni di scenario.

Da questo punto di vista, particolarmente significativa è una ricerca del mese scorso della Carbon Tracker Initiative, un team di specialisti finanziari che mira a far emergere il rischio climatico negli attuali mercati finanziari. Lo studio in questione ha un titolo estremamente eloquente, Expect the Unexpected. The Disruptive Power of Low-carbon Technology. Il postulato da cui partono gli autori di questo testo è che non è possibile elaborare modelli previsionali di business per quanto concerne il mercato energetico, partendo da griglie interpretative basate sul business-as-usual (Bau), in quanto oramai di fatto superate dagli eventi già in corso. A loro avviso, anzi, gli investitori dovrebbero punire, togliendo loro fiducia e capitali, quelle società che elaborano le proprie previsioni d’affari su simili modelli. Pur condividendo l’idea di quanti ritengono che il rispetto dei parametri dell’accordo di Parigi non dovrebbe impattare traumaticamente sul sistema finanziario, gli esperti di Carbon Tracker mettono in guardia circa i pericoli insiti in una sottovalutazione della transizione energetica in atto.

Fotovoltaico e auto elettriche
Expect the Unexpected propone a politici, investitori e scienziati alcune previsioni elaborate con differenti modelli, costruiti sulla base della effettiva incidenza che potrebbero avere molteplici variabili. Innanzitutto l’accento viene posto sulla capacità impattante di due nuove tecnologie, una posta sul lato dell’offerta, l’altra su quello della domanda di energia a più basso contenuto di anidride carbonica: i pannelli fotovoltaici e i veicoli elettrici. Accanto alla diffusa domanda di un sistema tecnologico meno oneroso in termini ambientali, ormai presente nella mentalità collettiva, il potenziale di decarbonizzazione della società di queste due tecnologie dipenderà in larga misura dalla convenienza economica del loro utilizzo. Sotto questo aspetto i risultati in ricerca e sviluppo degli ultimi anni sollecitano la formulazione di ipotesi ottimistiche per il futuro.

Tuttavia, anche un’ampia elettrificazione di circa i due terzi dell’intero parco-macchine mondiale entro il 2050, da realizzarsi soprattutto nelle grandi città, avrebbe un’incidenza piuttosto relativa sulla diminuzione delle emissioni di Co2 se non si riuscirà a intervenire sull’industria pesante, elettrificandone i processi produttivi. Perfino un modello di previsione basato su una politica “forte” dal punto di vista del contrasto alle emissioni di gas serra, accompagnata da una massiccia implementazione degli impianti di energia fotovoltaica e di estensione dell’uso di auto elettriche, indica nel 2050 il picco di emissioni in questo settore, mentre un modello tarato sulla semplice attuazione dell’accordo di Parigi porterebbe al raggiungimento del picco quasi nel 2080.

Poche nubi all’orizzonte
Tornando alle fonti energetiche, i vari modelli di previsione proposti dallo staff di Carbon Tracker (che escludono Bau e vanno dalla semplice applicazione dell’accordo di Parigi a un mix di politiche più aggressive con un ampio utilizzo delle due tecnologie ecologiche citate) ci suggeriscono il definitivo tramonto dell’era del carbone, il cui picco è previsto, in tutti i modelli utilizzati, nel 2020 se non prima; il lento declino del petrolio a partire dal decennio 2030-2040 e l’imprevedibile futuro del gas, a quanto pare meno colpito dalla “transizione energetica”.

Alla luce delle ricerche citate, sembra assai improbabile un contenimento del surriscaldamento del pianeta nel limite di 2 gradi previsto a Parigi. Anche le previsioni basate sui modelli più aggressivi, infatti, indicano in un surriscaldamento di 2,3 gradi la previsione più ottimistica (4,3 in uno scenario Bau). Al contrario, appare piuttosto lontano il rischio di una destabilizzazione del mercato finanziario causata dalla decarbonizzazione. Per gli investitori si profilano 10-15 anni abbastanza tranquilli sul mercato energetico, a patto che le major propongano agli operatori ipotesi di scenario quanto più trasparenti e accurate possibile.

@alesansoni

Foto Ansa

Tags: CinaClimadecarbonizzazioneglobal warminginquinamento
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