Liberiamoci dalla doppia verità

Di Emanuele Boffi
07 Febbraio 2008
Si cominci a parlare della responsabilità personale dei giudici. Si abbia il coraggio di criticare le "prassi disinvolte" di certi colleghi. Parla Nello Rossi, leader storico di Magistratura democratica

Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, è stato componente del Consiglio superiore della magistratura nella consiliatura 1998-2002. Esponente di spicco di Magistratura democratica (Md), la “corrente di sinistra” del mondo delle toghe, di cui è stato anche presidente, è stato segretario nazionale dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) sino a fine 2007. Al comitato direttivo dell’Anm di novembre è intervenuto per sottolineare che per i magistrati non è più possibile continuare ad esprimere, nei corridoi dei palazzi di giustizia, perplessità e critiche anche assai forti sull’operato di alcuni colleghi e sul contenuto di determinati provvedimenti giudiziari e poi presentarsi all’esterno come un sol uomo per sostenere che la magistratura «non si può criticare». «Questa pratica della “doppia verità” non porta da nessuna parte e non aiuta a risolvere nessuno dei problemi della giustizia», dice a Tempi. Rossi aveva ancora nelle orecchie le polemiche seguite agli arresti domiciliari di Sandra Leonardo Mastella, avvenuti tre giorni prima del suo intervento, quando si è espresso con queste parole davanti al comitato: «C’è oggi una enorme debolezza della politica, ma anche una grande debolezza della magistratura. Ciascuno di questi due mondi dovrebbe essere capace di guardare in se stesso, interrogandosi sui propri errori e sul cattivo funzionamento tanto della “responsabilità politica” dei governanti quanto della “responsabilità professionale” dei magistrati. Cominciamo da noi stessi, accettando di porre al centro della riflessione il nodo della responsabilità culturale e professionale del magistrato».
Rossi, che cosa intende per “responsabilità professionale”?
Un chirurgo che operasse un tumore con un bisturi infetto non potrebbe certo addurre a scusante la gravità del male su cui è intervenuto. E lo stesso vale per noi. Certo, i magistrati penali sono persone inviate dalla società in partibus infidelium a misurarsi con gli aspetti più crudi e duri della vita sociale. Ma la gravità dei mali che essi fronteggiano non li autorizza a operare al di fuori delle regole o con strumenti inappropriati. Quindi professionalità significa rispettare le regole e non pensare mai che si possano raggiungere “risultati di giustizia” attraverso forzature interpretative, prassi disinvolte, scorciatoie. Significa misurarsi in ogni momento con la realtà sulla quale incidono i provvedimenti e con gli effetti umani e sociali delle decisioni assunte. Accettare di sottoporsi alla critica degli studiosi e della più larga opinione pubblica. Pur operando in un contesto difficilissimo per le incongruenze del processo penale e per la carenza di mezzi, la stragrande maggioranza dei magistrati si comporta così. Ma non sono loro che occupano le cronache e che suscitano clamore.
A proposito di clamore, il suo collega Giuseppe Cascini, anch’egli esponente di Md, al comitato direttivo ha affermato che «nei processi oggi esiste solo la fase anticipata e il suo riflesso mediatico». In effetti, anche per un certo uso distorto del diritto di cronaca su cui marciano oggi i giornali, vediamo che è così.
La situazione descritta da Cascini è l’effetto della crisi gravissima del diritto e soprattutto del processo penale, letteralmente devastato da interventi legislativi disordinati, incongrui, dettati dall’emergenza o da interessi personali. Se il processo è inceppato, lento, inefficace, destinato a concludersi in un futuro lontano dopo tre gradi di giudizio, magari con una dichiarazione di prescrizione del reato, a occupare la scena sono le misure cautelari e le cronache delle indagini. Ora, è del tutto naturale che i processi interessino l’opinione pubblica e che i giornali ne riferiscano. Guai se non ci fosse il vigile controllo dell’opinione pubblica sull’operato dei pm e dei giudici. Ma spesso il maggior clamore si ha nella fase delle indagini preliminari nelle quali vigono le regole – troppo spesso violate – del segreto sugli atti d’indagine. In questa fase è necessario che tutti i protagonisti della vicenda processuale (pm, difensori, polizia, indagati, testi) osservino dei limiti. Il pm, ad esempio, deve parlare solo con i suoi atti e non è affatto necessario che rincari la dose con dichiarazioni pubbliche. Il ruolo che svolgiamo è importante e postula come necessari la misura e l’equilibrio. D’altronde, è il nostro stesso codice deontologico a ribadirlo all’articolo 6 («Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa», ndr).
Passando dalla teoria alla pratica, da quello che sostiene, si immagina che non le siano piaciute certe puntate della trasmissione Annozero né alcune interviste in cui si evocavano colpi di Stato, tritolo e P2.
La televisione fa il suo mestiere di specchio della realtà e non penso che questo specchio debba oscurare i magistrati o escluderli dal dibattito pubblico sulle questioni di giustizia. Ai magistrati è posto un solo, invalicabile, limite: non parlare dei procedimenti che stanno trattando. E quando parlano, del tutto legittimamente, di altri temi devono avere ben presente che cosa i cittadini si aspettano da un magistrato: impegnativa e leale chiarezza (senza allusioni o suggestioni fumose), argomentazione razionale, capacità di ascolto dell’interlocutore.
Certamente in Italia esiste un problema legato ai rapporti tra la magistratura e la politica. Sul Foglio, Giuliano Ferrara ha scritto una lettera aperta alla classe dirigente del centrosinistra per chiederle di non cincischiare con altri alibi e di ammettere che «il governo Prodi è stato spianato da un qualunque magistrato di Santa Maria Capua Vetere». Insomma, riassumendo, il direttore del Foglio ha invitato i politici di centrosinistra a smetterla di tenere bordone a una magistratura che fa politica.
Non credo che sia così. Negli ultimi quindici anni la magistratura non è mai stata coccolata da nessun governo, né di destra né di sinistra. Particolari “tenerezze” io non ne ho viste mai. D’altro canto, siamo noi stessi a non volerle queste “tenerezze”, così come non vogliamo e non possiamo dare “affidamenti” a nessuno sul nostro operato come giudici. Penso che il tema dello scontro fra giustizia e politica sia ormai divenuto un grande “alibi” per entrambe le parti. La politica lo usa per assolversi da molte delle sue responsabilità e la magistratura per assolversi , con spirito corporativo, da decisioni e prassi discutibili. Occorre sgombrare il campo da questo alibi e i magistrati devono cominciare a farlo da subito.
Non vorrà negare che tra giustizia e politica non vi sia alcun attrito.
Non lo nego affatto. Ma per superare il conflitto non basta la diplomazia. Occorre recuperare un rispetto profondo e reciproco tra quanti svolgono queste due attività, difficili ma vitali per la collettività. E lavorare insieme per restituire alla giurisdizione l’efficienza e la credibilità perdute, anche a causa di leggi processuali che hanno reso farraginoso e improduttivo il lavoro dei giudici. Ad esempio, il processo penale attuale è una miniera di paradossi. Al punto che spesso nei convegni internazionali i nostri colleghi ci guardano con stupore quando li descriviamo. Nel nostro paese dopo un patteggiamento possono celebrarsi altri quattro processi sulla imputazione patteggiata. Per non parlare degli sprechi di danaro pubblico che sono nati dalla scelta di approvare un indulto senza farlo seguire da una amnistia selettiva (con i tribunali impegnati per anni a celebrare processi per dichiarare poi la pena interamente condonata).
Il nuovo presidente dell’Anm, Simone Luerti, è stato attaccato sull’Epresso perché membro di Comunione e liberazione.
Ho espresso personalmente, a Luerti, insieme a moltissimi altri magistrati, una solidarietà forte e sincera. La sua, come egli stesso sa, è una presidenza “monocolore”, e credo che la magistratura debba ritrovare nel prossimo futuro la sua unità. Su alcuni temi siamo distanti ma, sulle grandi questioni di fondo, possiamo e dobbiamo essere uniti. Per quel che riguarda il vissuto personale di ognuno di noi, esso deve essere rispettato e non può essere certo considerato come un indice di pregiudizio e di parzialità. Nessuno si augura un magistrato vuoto di ideali, di fede, di convincimenti personali. Ciò che si deve chiedere è che egli sia capace, nell’atto di decidere, di operare una consapevole tensione verso l’imparzialità. Ma questa è ancora una volta una questione di professionalità. Professionalità che a Luerti è da tutti riconosciuta.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.