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Liberate la femmina selvatica

In un mondo fondato sulla fabbricazione di surrogati, la donna «ci ridoni i suoi insegnamenti eterni sulla vita». L’inno di Claudio Risé

Caterina Giojelli
03/03/2016 - 13:34
Cultura
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vergine-rocce-leonardo-ansa

Pubblichiamo l’articolo contenuto nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«Dà per nulla. Altrimenti è forse un dare? Ama per nulla. Altrimenti è forse un amare?»
(C. Péguy, Il mistero dei santi Innocenti)

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Verena: 35 anni domani. Movement manager in uno dei più grandi aeroporti europei. Intelligente, pronta, rincorsa da radio e televisioni. Vita sociale intensa, dorme poco, sesso molto, amore quasi niente. Ansia moltissima: tutto deve funzionare alla perfezione, tutto deve essere controllato. Ecco chi è Verena quel giorno di nebbia feroce, mentre percorre l’asfalto stretta nella carlinga di un tailleur elegante e incurante della visibilità ridotta: la gru mobile non si accorge neppure di lei e, in un attimo, il giorno prima del suo 35esimo compleanno diventa il giorno in cui muore Verena. Inghiottita dalla nebbia nera di un grande aeroporto, circondato da fitti boschi pieni di respiri.

In alcune parti del mondo alpino, da quei fitti boschi circostanti lo spazio che fu il regno e insieme la tomba di Verena fino alle prime città del nord Italia, si raccontano storie di altre donne, donne selvatiche di particolare bellezza. «Sono le Salighe, le beate vergini delle leggende delle Dolomiti. Creature pronte a soccorrere con il loro sapere originario ogni forma di vita, a cui si donano con generosità, così come a sparire non appena qualcuno osi pensare di ricompensarle». Claudio Risé, psicanalista e scrittore milanese, conosce queste leggende fin da bambino così come fin da bambino conosce i luoghi in cui quasi trent’anni fa decise di costruire la sua casa insieme alla moglie Moidi Paregger, medico antroposofico, altoatesina. Proprio qui, sull’altopiano del Renon, poco sopra Bolzano, dominato dalle imponenti e maestose montagne dello Sciliar, il Latemar, il Rosengartner, in questi «luoghi dell’anima», dove è impossibile dubitare dell’abbondanza, della saggezza e dell’ordine delle perfette strutture della natura, i due sposi hanno scritto Donne selvatiche, un libro che nasce da una passione condivisa. Quella per la scoperta di uno spazio inviolabile dall’uomo, dove ritrovare tutto ciò che l’umano ha perduto, la bellezza della vita, la saggezza della terra feconda.

Quella per le selvatiche Salighe, immagini dello spirito e della natura incontaminata delle origini, che nelle saghe del Rosengartner si presentano come serve (custodi) offrendo doni preziosi alla vita di quei contadini che, innamorandosene, se le portavano fino a casa, al maso. E quella per i pazienti, donne e uomini che da tempo hanno smarrito la propria selvatica o il proprio selvatico, il senso della propria origine, tra i corridoi delle aziende e nelle immagini ad alta definizione della rete. «Questo libro è dedicato a loro, all’infelice Verena e alle donne che come lei battono le piste high tech di elevato successo, sicura immagine, forti guadagni e intensa solitudine. E anche agli uomini che le amano, ma non riescono a prenderle, a farle salire sul loro carro e a portarle a casa».

Ma perché ricorrere a queste leggende, al femminile selvatico della natura incontaminata proprio oggi che i progressi della scienza e della tecnica sono a portata di mano per tutti? Oggi, che il demone dell’imperfezione è il nemico da esorcizzare e abbiamo imparato a chiamare “amore”, “altruismo”, “affetto” contratti commerciali per la fornitura di figli surrogati, che abbiamo imparato a ibernare il cervello dei conigli e se nasce un bimbo senza gambe – è accaduto a Parma, la notte di Natale: nessuna ecografia aveva rilevato la malformazione del piccolo Bryan – ci interroghiamo sul “diritto negato” ai genitori di farlo non nascere: perché tornare ai boschi dove le Salighe apparivano un tempo agli abitanti dei masi? «Perché mai come oggi il primato della vita, dell’origine, delle sue domande e forze feconde è stato soffocato da quello sterile del pensiero solo razionale (e non più affettivo, ad esempio), diventato il riferimento dominante del mondo contemporaneo. I nostri contemporanei hanno cercato disperatamente di allontanare da sé il mondo della natura vivente per sostituirvi un mondo fabbricato, asettico e igienizzato. Un mondo senza vita, senza gusto per il vivente che sfocia, lo attestano le nostre casistiche di medici, nell’orrore di tutto ciò che è fecondità e nutrimento naturale».

«Voglio servire»
Il mondo del pensiero razionale, scriveva Rudolf Otto, è quello del calcolo, della misura, del controllo. L’uomo e la donna oggi pensano di poter ottenere solo nella misura in cui continuamente calcolano: nulla è dato gratuitamente, l’affidamento alla vita è considerato irresponsabilità. Anche l’amore, scriveva Simone Weil, è stato sostituito dal diritto, e così uomo e donna si sono ritrovati tutti soggetti giuridici e non più amati e amanti. Al fondo infelici, come Verena. Senza passione, a-patici, e per questo incapaci di compassione, di con-patire, soffrire insieme, prendere su di sé amore e dolore. Puliti, sterili, senza germi, incapaci di guarire perché troppo occupati a non ammalarsi. La donna selvatica, esattamente come l’uomo selvatico, invece irrompe nel mondo, offrendosi al mondo, facendosi carico della passione del mondo. «Al contadino che le chiede cosa desideri, la saliga risponde “Voglio servire”. Servire, da servus che ha origini indo-iraniane e significa “osservo” e “custodisco”. È la dimensione dell’attenzione al reale come sacro dono ricevuto da Dio e quindi del fare come dono all’altro, della gratuità, del libero dispendio di sé. Un aspetto connaturato fin dall’origine alla donna, rappresentante naturale di un mondo di abbondanze che è un inno alla vita, alla parola, al nutrimento, all’amore e alla procreazione: è attraverso questa donazione che le energie della donna intervengono nella vita degli uomini».

Donne che oppongono alla religione del dubbio – del “quando finirà?” come domanda ultima sulla vita – la fede in un’abbondanza originaria di cui non è possibile dubitare. Come raccontano le fiabe, ricorrenti in queste valli, del gomitolo donato dalla Salighe alle donne del maso: il gomitolo della vita, che si srotola e tesse all’infinito. «Ma la tessitrice – ricorda Risé – non deve pretendere di misurarlo, non deve chiedere: quando finirà? Altrimenti finisce, immediatamente, già dentro di sé come l’amore quando lo si vuole misurare. La coscienza moderna ha però rimosso la capacità di accettare il dono, di tessere creativamente e felicemente il filo della vita, e con esso la capacità di donarsi: perso nella paura della fine e nel controllo che corrisponda sempre a una idea, l’altro sparisce, non lo vediamo più. Lo smarrimento della relazione con l’abbondanza e col dono è una delle perdite più gravi della donna occidentale, che si è allontanata dalla selvatica per avventurarsi nei giochi di status e nei calcoli della metropoli». Come Verena, lo sguardo intrappolato dagli impegni e dal decollo degli aerei che da anni aveva perso il contatto con la terra, con il lumen naturae, la certezza tranquilla degli inizi e delle fini, della nascita e della morte che scaturisce dal grembo della terra, dove avviene un processo creativo paragonabile per ricchezza solo a quanto avviene nel corpo della donna che della natura fa parte.

donne-selvaticheLa grande menzogna
«Questo libro nasce sette anni fa, quando abbiamo capito che il ricongiungimento, le esperienze di immersione nel mondo selvatico, il mondo delle origini e le sue figure archetipe, portava miglioramenti, aiutava la “guarigione”. Lo abbiamo riportato in libreria oggi, edito con San Paolo, aggiungendo un nuovo capitolo. Nel corso del tempo, l’inconscio collettivo che aveva espresso le figure delle “beate vergini selvatiche” fin dai lontani secoli prima di Cristo, racconta sempre più spesso di una figura femminile, che riunisce l’archetipo della vergine “una con se stessa” presente nelle Salighe, e quella dell’archetipo della madre, generatrice di vita. La figura di Maria, madre e serva del Signore».

Maria è l’eterna compassione. Nel «fiat» dice sì alla fecondità e alla passione che subirà per la salvezza-guarigione dell’umanità intera. È la donna più selvatica perché totalmente naturale, al punto da essere preservata dal peccato originale che produce l’artificialità, la separazione dalla natura, la vergogna della propria nudità, lo scandalo del limite. «Nel ventre tuo si raccese l’amore/ per lo cui caldo nell’eterna pace/ così è germinato questo fiore», scrive Dante, e basterebbe guardare la cupola di Santa Maria del Fiore per riconoscere il ventre gravido di quella ragazza di Nazareth che compatendo generò: è una questione viscerale, non un pensiero astratto, una faccenda che l’umanità conosce da sempre. Ma non c’è risposta oggi al grido di queste forze primordiali: indagato come durante una biopsia medica, “pezzo per pezzo”, nel tentativo di reificarlo il più possibile, de-strutturarlo dalla sua identità più intima che invece di venire valorizzata è prostituita allo sguardo e messa sotto vetro o peggio venerata come un totem, il corpo della donna somiglia sempre più alla scocca di una macchina, un’esperienza in parte intellettuale, in parte di consumo. «Per giunta frammentato – chiosa Risé – a pezzi: l’ovulo, l’utero, che interessano all’industria della riproduzione, per non parlare delle altre parti, già sfruttate ampiamente dall’industria della comunicazione».

La chiamano “maternità surrogata”, qualcuno preferisce “gestazione conto terzi”, chiosando qualcun altro che di madre proprio non vuole sentire parlare, preferendole il termine “concetto antropologico”, tutti sono d’accordo però a chiamarlo “atto di amore”. «È questa un’altra vergognosa menzogna prodotta dalla propaganda tecnoscientifica in disprezzo dell’intelligenza dell’uomo e della natura che è madre e maestra. L’amore nella realtà nasce sempre da un’abbondanza e non da un commercio atto a compensare un vissuto di privazione come quello su cui è costruita la modernità occidentale, e la pretesa di alcune coppie omosessuali di oggettivare il figlio in un bene concreto, come altri disponibili sul mercato. Il figlio non è un avere, è il frutto di un dare che si esplicita in un servire, in una relazione di dono iscritta nelle leggi naturali costitutive dell’umano. Il fine di questa propaganda sterilizzante (che alimenta il nuovo mercato della riproduzione artificiale) è la scomparsa della madre, serva e custode della vita del generato. Tutta la storia psicanalitica attesta il rapporto di simbiosi con la madre che dura dal concepimento fino alle soglie dello sviluppo ma  pochi oggi ne parlano in quanto va contro al mito delle Verena, donne moderne in carriera che ossessionate dal fantasma della privazione rinunciano al gomitolo, al filo e fiato della vita, al tessere la generazione. E restano sole. La sfida è dunque liberare la donna selvatica dalla sua condanna sociale, da un modello di vita fondato sulla fabbricazione di oggetti sostitutivi della natura vivente, perché torni a trasmettere i suoi insegnamenti eterni: come nasce e si nutre la vita, come si serve e custodisce».

Quel «fiat» senza limiti
La titanica battaglia della téchne contro la natura ha cercato di imporre nuovi giudizi di valore, da essa la bioetica ha imparato nuove norme. La tecnica oggi può fecondare artificialmente, abortire, procurare la dolce morte. Può generare, far nascere e morire. Ma c’è quel «fiat», c’è la prova di un fare, una ragazza senza tempo dalla pelle brunita da contadina che è apparsa nella storia dell’amore nel mondo e chiede (dalle paludi, dai boschi, dalle rocce), di edificare luoghi in cui guardare la Croce, la rinascita. C’è quella “beata vergine” che con suo figlio ha inaugurato una condizione dove l’uomo è alleato della natura nel cercare la soddisfazione di un desiderio, appunto, naturale. Quello di generare, amare l’altro da sé, vivere bene, morire in pace. Un desiderio tranquillamente infinito. Non pone limiti e non manipola lo scorrere del gomitolo della vita, ritrovato nel riconoscimento devoto e affettuoso dell’origine.

Foto Ansa

Tags: claudio risèfemminematernità surrogatanascitavita
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