lezione d’inglese per zio Sam

Di Newbury Richard
10 Ottobre 2002
Come i britannici inventarono il coordinamento dei servizi di intelligence per evitare disastri in politica estera. E perché Bush farebbe bene oggi a servirsene

Il dossier sulla ininterrotta produzione di armi di sterminio di massa da parte di Saddam Hussein dal 1991 e sulla sua accelerazione dopo il ritiro degli ispettori dell’Onu nel 1998, che il primo ministro britannico Tony Blair ha presentato al parlamento, è stato preparato da un organismo che non è uso ad attirare su di sé l’attenzione: il Joint Intelligence Committee (Jic).
Quando gli americani entrarono in guerra nel 1941, i loro servizi di intelligence erano minuscoli e rudimentali, e le loro nuove agenzie erano strettamente modellate su quelle britanniche. Ian Fleming, assistente del famoso ammiraglio Godfrey direttore dei servizi segreti della marina militare, fu mandato negli Usa esattamente a scopi didattici. Le sue storie centrate sulla figura dell’agente segreto James Bond, che furono la lettura preferita di John Kennedy, possono essere considerate come la descrizione del passaggio del ruolo di intelligence globale da Londra ai “cugini” di Washington. L’unico ambito in cui si può davvero parlare di una “relazione speciale” fra inglesi e americani è quello della intelligence, sia che si tratti di intelligence delle comunicazioni (come nel caso di Echelon, attraverso cui Usa, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda gestiscono un network mondiale che controlla tutte le comunicazioni sul pianeta) o di intelligence umana, cioè quella delle spie. Si tenga presente che in aree di tradizionale influenza britannica come il Medio Oriente la Gran Bretagna gestisce da sempre reti spionistiche.

Il consigliere Blair
La condivisione di informazioni grezze e della loro interpretazione permette al governo britannico una maggiore influenza non solo negli affari mondiali in generale, ma all’interno dei circoli decisionali americani. L’appoggio pubblico di Blair alla politica americana ha permesso in privato al primo ministro britannico di persuadere Bush della necessità di riunire un consenso internazionale, e soprattutto arabo (che Blair poteva procurare), prima di dichiarare la “guerra al terrorismo” dopo l’11 settembre. Bush voleva escludere Arafat dai negoziati israelo-palestinesi. Dopo un incontro con Blair il presidente ha accettato che Arafat sia parte della difficile equazione della pace, come l’Ira e il Sinn Feinn, coi loro dirigenti Martin McGuinness e Gerry Adams, lo sono nell’Irlanda del Nord. Adesso Blair sembra aver convinto Bush che le azioni contro l’Irak debbono essere effettuate in nome dell’Onu. E ora il presidente Usa pare pronto ad appuntarsi la stella di sceriffo del villaggio globale, anche se pochi “onesti cittadini” sembrano disponibili ad unirsi alla sua squadra. Fra le organizzazioni che i “cugini” americani hanno copiato dal sistema di intelligence britannico manca proprio quella che li avrebbe aiutati ad evitare l’11 settembre, ed è esattamente il Joint Intelligence Committee, cui pure sin dal 1941 hanno inviato propri ufficiali. Solo ora stanno provvedendo a colmare la lacuna.

In principio fu Churchill
I “servizi combattenti” britannici della marina, dell’esercito e, più tardi, dell’aviazione sin dal 1900 ebbero sopra di sé un Comitato di Difesa imperiale misto, formato dai capi di Stato maggiore, dal primo ministro e dai principali ministri. Questo organismo centralizzò per la prima volta il comando militare e favorì la pianificazione congiunta per prevenire possibili minacce. La valutazione circa le possibili minacce non ebbe un coordinamento fino al 1936, quando il minaccioso clima internazionale spinse a creare il Jic, al fine di coordinare l’accozzaglia di ministeri e organismi che fornivano informazioni segrete ma agivano senza collegamenti fra loro, spesso in spirito di marcata rivalità e senza strutture di integrazione o supervisione. Il Jic coordinò il Sis (Secret Intelligence Service) o Mi6, responsabile per l’intelligence all’estero e per quella delle comunicazioni, che opera sotto l’egida del ministero degli Esteri, il Mi5, responsabile del controspionaggio interno (ministero degli Interni), l’intelligence economica (ministeri del Commercio e del Tesoro) e i dipartimenti di intelligence di marina, esercito e aereonautica. Il feldmaresciallo Haig, capo di Stato maggiore durante la Prima guerra mondiale, pensava che «l’intelligence è un tipo di lavoro piuttosto speciale, ed ha un posto molto piccolo nell’esercito in tempo di pace». E tuttavia è stata la sua superiorità nell’intelligence, nel coordinamento e nell’interpretazione di essa, che ha permesso al Regno Unito prima di sopravvivere, e poi di vincere la Seconda guerra mondiale. Come dice un proverbio cinese: «Conosci il tuo nemico, conosci te stesso, e potrai combattere cento battaglie senza disastri». Durante la guerra e dopo, il Jic attrasse nei suoi ranghi un’intera generazione di accademici di Cambridge ed Oxford, e così pure avvocati e agenti di Borsa della City. Il suo compito non era la raccolta di informazioni, ma la loro analisi e valutazione, poiché esso doveva essere l’interfaccia fra intelligence e politica. Doveva occuparsi di valutazioni strategiche e di lungo termine, e a questo fine il generale Kenneth Strong, il capo di Stato maggiore per l’intelligence di Eisenhower nella campagna d’Europa, istituì il Joint Intelligence Bureau, attualmente Defence Intelligence Staff, i cui cervelli più fini erano incaricati di redigere i frequenti e voluminosi rapporti da cui dipendeva la politica britannica sia in tempo di guerra che in tempo di pace. Churchill, l’uomo che aveva fondato l’Mi6 e l’Mi5 nel 1909, divorava letteralmente l’intelligence, e subito dopo essere salito al potere nel 1940 diede istruzioni al Jic di «prendere l’iniziativa di preparare a qualunque ora del giorno e della notte, in caso di emergenza, rapporti su qualunque particolare sviluppo nella situazione internazionale ogni qual volta ciò apparisse desiderabile ad uno dei suoi membri, alla luce delle informazioni che poteva aver ricevuto».

Non ignorate il jic
Abbiamo tutti letto il recente rapporto sull’Irak reso disponibile al pubblico senza rivelare le fonti. Un modo per giudicare il dossier è di vedere quanto si siano rivelati accurati, in passato, rapporti analoghi, specialmente quelli relativi al Medio Oriente, un’area che il ministro degli Esteri conservatore Anthony Eden considerava «questione di vita o di morte per l’Impero britannico», mentre il suo successore laburista Ernest Bevin metteva in guardia: «se noi ce ne andassimo da lì, entrerebbero i sovietici». Durante e dopo la guerra il Jic previde accuratamente la crescente minaccia sovietica, il blocco di Berlino, la guerra di Corea e i problemi col collonnello Nasser e il Canale di Suez, “la giugulare dell’Occidente”. E tuttavia nell’aprile del ’56 non credeva, diversamente da Eden, che Nasser fosse un altro Hitler o che si fosse consapevolmente rassegnato a diventare uno strumento della politica sovietica: «Egli probabilmente ancora crede di potere barcamenarsi fra le due parti. Ha cercato di resistere ad alcune delle condizioni che i sovietici gli ponevano per fornirgli armi, e sembra desiderare finanziamenti occidentali per costruire la diga di Assuan, se può ottenere garanzie valide e termini soddisfacenti. Il problema è: quanto può durare questa equidistanza?». La debacle di Suez, affaire che vide un patto segreto fra inglesi e israeliani (e francesi) per l’invasione dell’Egitto di cui erano a parte solo il primo ministro Eden e il ministro degli Esteri Selwyn Lloyd, è un classico esempio dei disastri a cui vanno incontro i governi che ignorano il consiglio del Jic e lo tengono all’oscuro di questioni decisive. Gli Usa costrinsero il Regno Unito ad un’umiliante ritirata minacciando attacchi speculativi contro la sterlina, mentre i francesi si sentirono traditi dagli inglesi e si volsero alla Germania, dove trovarono un cancelliere Adenauer che disse loro: «L’Europa sarà la vostra vendetta!. Un rapporto del Foreign Office denunciò che Suez aveva «scosso alle fondamenta le relazioni anglo-americane», «mostrato i limiti della nostra forza» ed era stata per la Francia e la Gran Bretagna «una sconfitta politica di prima grandezza». Il Jic previde anche che la perdita di prestigio nel mondo arabo avrebbe condotto alla caduta della monarchia hascemita filobritannica in Irak, cosa che infatti avvenne col colpo di stato militare del generale Kassem nel 1958, in cui furono assassinati il re ed il primo ministro Nuri.

Effettiva deterrenza
Il Kuwait, protettorato britannico dal 1899, si trovava ora sotto la minaccia diretta di un’invasione. Stavolta però, grazie ai consigli e agli allarmi del Jic lanciati per due anni di seguito, nel 1961 un’invasione irakena fu scongiurata da un intervento britannico preventivo, stavolta con l’acquiescenza degli americani, il permesso di usare il Canale di Suez da parte di Nasser e la rapida sostituzione delle forze britanniche da parte di truppe della Lega Araba in Kuwait finita la crisi. Intelligence di prim’ordine, appoggiata da una prova di forza, aveva dimostrato che «l’effettiva deterrenza è quella che impedisce alle cose di accadere». Ma quello fu solo il primo round di una sfida con una serie di imprevedibili governi irakeni fino alla guerra del Golfo del 1991 e allo stallo attuale. Gli austeri esperti del Jic non si lasciano condizionare dalle pressioni politiche, come quelle che vengono esercitate sui ministri. Il loro sobrio compito – quando non sono affaccendati coi loro quartetti d’archi o con le loro occupazioni accademiche o con la passione per l’antiquariato – è definire le minacce e le opportunità nel lungo termine. Se la politica è fatta per arrivare vivi a fine settimana, la politica estera e l’intelligence sono fatti invece per durare fino al prossimo secolo. Non è la prima volta che il Jic giudica minaccioso un regime irakeno. I disastri a danno dei britannici in Medio Oriente sono sempre stati causati da governi che non hanno dato ascolto a questo organismo.

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