
L’eutanasia di R.S., ucciso nel migliore interesse degli inglesi

È morto di fame e di sete: ha resistito 12 giorni R.S., paziente polacco ricoverato all’ospedale universitario di Plymouth in stato di minima coscienza, finché il respiro si è fatto intermittente, «sta peggiorando», hanno spiegato i medici a sua moglie la sera del 25 gennaio. Privato il 14 gennaio dei sondini che lo idratavano e nutrivano (così avevano stabilito i giudici), il 26 gennaio l’uomo è stato dichiarato morto.
Non l’ha ucciso l’arresto cardiaco del 6 novembre, che lo ha privato dell’ossigeno per 45 lunghi minuti, neppure il distacco dal ventilatore artificiale una volta uscito dal coma, e nemmeno i danni cerebrali conseguenti alla perdita della circolazione sanguigna: R.S. è stato ucciso dalla sentenza della Court of Protection, il tribunale britannico che dovrebbe deliberare nel migliore interesse di chi non è in grado di intendere e di volere, e da un pensiero compassionevole che non serve più a salvare la vita di chi soffre bensì a falciarla. Anche quando c’è chi si offre di farsene carico: quello di R.S. non è diventato un caso diplomatico a forza di hashtag, appelli dei famigliari a manifestazioni del popolo prolife, lo è diventato perché immediata è stata la reazione del governo di Varsavia, delle autorità polacche e dei vescovi per rimpatriare e salvare la vita a un connazionale a proprie spese. Un uomo che si trovava ancora in coma, quando l’ospedale l’inglese, a neanche un mese dall’infarto, aveva già disposto la sospensione di ventilazione, alimentazione e idratazione «nel suo migliore interesse» in accordo con la moglie.
IL BRACCIO DI FERRO TRA LONDRA E VARSAVIA
Tempi vi ha raccontato qui cosa è successo dopo: a battagliare per R.S. in ogni tribunale, fino alla Corte Suprema e alla Corte europea dei diritti dell’uomo, non c’erano solo la madre, due sorelle e una nipote, ma il governo di Andrzej Duda e la Chiesa cattolica: per lui si sono mossi il ministro degli Esteri polacco, il capo di Stato maggiore, il viceministro alla Giustizia e quello alla Sanità, ambasciatori e vescovi, dalla Conferenza episcopale polacca a quella di Inghilterra e Galles, nonché il prestigioso Anscombe Bioethics Center di Oxford. Un aereo e un elicottero erano già pronti per trasferirlo in patria dall’aeroporto di Plymouth a quello di Szymany e da lì alla clinica Budzik, specializzata in ricovero a lungo termine di pazienti in coma e stato vegetativo, per lui il tribunale distrettuale di Varsavia aveva decretato l’incapacità di intendere e volere, a cui è seguita la concessione da parte delle autorità polacche di un passaporto diplomatico per aprire la strada al suo rimpatrio.
LA RIVOLTA CONTRO UN BARBARO OMICIDIO
Tutto inutile: «Diciamo coraggiosamente “no” alla barbara civiltà della morte», ha twittato l’arcivescovo Stanisław Gądecki appena ha saputo della morte di R.S.. Era stato lui, il presidente della Conferenza episcopale polacca, a scrivere al suo omologo inglese Vincent Nichols, chiedendogli di intervenire per salvare la vita di un uomo «condannato a morire di fame». Quella che in Inghilterra è stata trattata come una notizia di ordinaria amministrazione – con tanto di giornali locali che ricordano che il governo polacco vuole «bandire l’aborto» e ha scatenato proteste di massa in cui i «manifestanti, prevalentemente donne, sono stati persino affrontati dalla polizia antisommossa che ha usato spray al peperoncino e forza fisica» – è stata accolta con orrore in Polonia, dove sono state rese pubbliche le generalità dell’uomo nonostante i giudici inglesi avessero stabilito di preservarne rigorosamente l’anonimato, volti dell’attivismo e giuristi conservatori hanno parlato di «scandalo nelle relazioni internazionali» e di «sentenza di morte», il viceministro della Giustizia polacco Marcin Warchoł, che aveva lavorato all’immunità diplomatica intensificando gli sforzi per trasportare l’uomo in Polonia, ha annunciato provvedimenti per semplificare il percorso legale ed evitare altri casi R.S. in futuro. Di «omicidio barbaro» ha parlato in tv anche Wojciech Maksymowicz, ex ministro della Salute polacco e supervisore della clinica Budzik ricordando le tante persone che versano nello stesso caso del paziente ucciso in Inghilterra e dichiarando che il metodo utilizzato dai medici di Plymouth, somministrazione dei farmaci per “spegnere” il cervello dell’uomo, non può che chiamarsi «eutanasia».
L’EUTANASIA TRAVESTITA DA GRAZIA AL MALATO
Un’eutanasia ancora una volta travestita da morte per grazia al malato: illuminanti a questo proposito i passaggi della sentenza del giudice Cohen che prima ha preso atto che per R.S. non era imminente la morte («potrebbe sopravvivere fino a cinque anni o più») sebbene nella migliore delle ipotesi «in uno stato di minima coscienza», e poi ne ha accertato le convinzioni cattoliche: «… la sua compassione per la nonna quando aveva il morbo di Alzheimer e per il padre malato di cancro. Era chiaro che avrebbero dovuto essere curati e avere una possibilità di vita. Ha espresso il suo disaccordo con un caso ampiamente riportato in Inghilterra in cui la decisione era di interrompere le cure mediche per un bambino molto piccolo nato con gravi anomalie. Dicono che fosse religiosamente conservatore, contrario all’aborto, anche per un nascituro che rischiava di essere compromesso dal punto di vista medico e contrario all’eutanasia». Eppure è arrivato a sentenziare che le opinioni espresse in passato «potrebbero benissimo essere cambiate alla luce delle tensioni e della sua situazione attuale». Invocate quando fa comodo, cioè solo se orientate all’eutanasia, e taciute quando inutili allo scopo, le convinzioni del paziente sono passate quindi in secondo piano: «Sono certo che avrebbe tenuto conto delle opinioni della sua famiglia ma soprattutto di quelle di sua moglie e dei suoi figli e dell’impatto che la sua condizione ha su di loro, vale a dire una situazione che porta loro un’enorme tristezza e un ricordo di R.S. così diverso da quello che avrebbe desiderato».
NEL DUBBIO MEGLIO LA MORTE
La moglie aveva dichiarato di aver sentito R.S. dire che mai avrebbe voluto essere un peso per la famiglia né avrebbe voluto essere mantenuto in vita in caso di grave disabilità. Aveva espresso angoscia per la situazione, affermando che il recupero minimo indispensabile che avrebbe potuto giustificare il mantenimento in vita di suo marito doveva prevedere la possibilità di interagire con lei e i suoi figli riconoscendo la loro presenza. Nessuno, le avevano spiegato i medici, poteva sapere se R.S. avrebbe potuto rispondere ai loro solleciti o stringere loro le mani consapevole di chi fossero. Nel dubbio, nel migliore interessi di tutti, la risposta è stata l’eutanasia.
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