L’errore dell’Economist

Negli ultimi tempi ha preso piede nella politica italiana e soprattutto su alcuni quotidiani il partito della finanza internazionale che, sulla scia delle analisi riportate dall’Economist circa l’inevitabile declino italiano (già per altro contestate dal Rapporto Censis e da altri interventi, quali quello di Marco Fortis su Economy), ripropone come panacea di tutti i mali l’idea neoclassica di un mercato liberista, capace di autoregolarsi per il bene comune. Non è qui la sede in cui analizzare la verità di questa tesi. Per mostrare che questa visione scientifica dell’economia non sempre cattura tutti i fattori della realtà, si vuole porre qualche interrogativo su uno dei suoi postulati fondamentali: l’idea che un’impresa, per essere veramente tale, deve essere quotata e che la sua “salute” debba essere misurata dal suo profitto trimestrale.
Colpisce quanto dice Mario Sarcinelli, già vice direttore generale della Banca d’Italia e Direttore generale del Tesoro: «Poiché la finanza è attenta soprattutto ai guadagni realizzabili nel breve periodo, mentre l’impresa che agisce nell’economia reale ha di mira il medio e non di rado il lungo termine, la conciliazione tra i due orizzonti temporali è una delle responsabilità principali della struttura finanziaria (.). Il mercato non sa più di quanto è a conoscenza degli operatori e questi spesso si concentrano, come nella natura della finanza, sul breve periodo. Anche quando viene redatto, per obbligo di legge o per scelta, un business plan è troppo sintetico e troppo generico». Aggiunge l’economista Luciano Gallino: «Una definizione dell’impresa irresponsabile, così definita, sta nel fatto che oltre a imporre alla collettività elevati costi umani e ambientali, in realtà essa finisce per non massimizzare nemmeno il valore per gli azionisti a lungo termine. Inoltre rischia di compromettere il proprio stesso futuro e quello dell’economia mondiale a causa della competizione aggressiva che ha posto in essere, dell’eccesso di finanziarizzazione delle attività produttive e del correlativo rallentamento dell’accumulazione, al quale si deve anche la sua scarsa capacità innovativa».
François Michelin ci mostra una via alternativa alla finanziarizzazione delle imprese: «La responsabilità di tutte le persone di un’azienda è di fare dei prodotti vendibili, mostrando dunque che il vero padrone di un’impresa è il cliente, e non sono io ad ogni modo. Se non ci sono clienti non esiste l’azienda (.). Occorre prendere atto che il futuro di un’azienda dipende soprattutto dalla qualità del servizio che i prodotti danno al cliente». Come si vede, anche postulati fondamentali, considerati basi inattaccabili di un’economia sviluppata, possono mostrare crepe non indifferenti se paragonati con la realtà fattuale. Viene voglia di approfondire e capire. Ce ne sarà il tempo, incalzati come siamo dalla rivoluzione progressiva preannunciata dalla grande finanza?
*Presidente Fondazione per la Sussidiarietà

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.