L’epopea dei “carusi” siciliani
Nel dialetto siciliano il termine “carusi” è sinonimo di ragazzi, fanciulli. Per maggior precisione si può aggiungere che questa parola è in uso maggiormente nella Sicilia orientale. Mentre nella Sicilia occidentale è utilizzato il termine “picciotti”.
Non tutti sanno che con il termine “carusi” venivano chiamati i ragazzini, spesse volte i bambini, che lavoravano nelle miniere di zolfo dell’interno della Sicilia, operative fino alla metà degli anni Settanta. Agili, di piccola costituzione e a poco prezzo, costituivano la manodopera adatta per portare in superfice sulle spalle lo zolfo che veniva estratto, dopo aver fatto brillare alcune mine.
Luigi Pirandello ha contribuito alla loro notorietà nella breve novella “Ciàula scopre la Luna”, che fa parte della raccolta Novelle per un anno.
Bambini senza nome
Silvana Giletto trae spunto dall’incontro casuale con uno di questi carusi, ormai nonno, quando lo conosce nel 1988, per raccontare la storia di uno dei pochi che riuscirono a fuggire dalla miniera di Gessolungo, in provincia di Caltanissetta.
Le pagine iniziali del lungo racconto (Carusi, Albatros) che descrivono le condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i carusi trascinano il lettore alla scoperta di un mondo drammatico, di cui fortunatamente si sono perse le tracce materiali. Oggi alcune miniere sono oggetto di visite di turisti frettolosi, che nel poco tempo a loro disposizione non riescono certamente a comprendere e condividere il dramma di migliaia di ragazzini che, all’età di 12 o 14 anni, hanno consumato tutta la loro breve vita in quei cunicoli.
«Noi bambini non avevamo un nome, per tutti eravamo “i carusi”. Per tutti i nostri superiori eravamo persone senza nome, corpi senza anima né sentimenti, noi per loro eravamo solo un economico mezzo di trasporto con i piedi. Ci avevano resi marionette senza memoria, non ricordavamo più la nostra famiglia, la nostra casa e ormai dopo tanti anni avevamo dimenticato anche il nostro nome».
La miniera di Gessolungo
Silvana Giletto, figlia di siciliani trapiantati in Lombardia, è nata a Varese e si è impattata con questa storia in modo casuale. Ha conosciuto Salvatore, protagonista di questa avvincente saga familiare, su una spiaggia siciliana nell’ultimo giorno di ferie del 1988. Dopo aver avviato una normale, se non banale, conversazione tra due persone tanto diverse, lui nato nel 1909, lei nel 1969, Salvatore le ha detto:
«”Sai, io non ho avuto una vita facile già in tenerissima età, dovetti affrontare, subire quello che di più brutto la vita aveva in serbo per me. A sei anni fui venduto alla miniera”. Già… venduto alla miniera di zolfo di Gessolungo, in provincia di Caltanissetta. Lo guardai e timidamente e gli chiesi: “Sono troppo invadente se ti chiedo di raccontarmi la tua storia?”. Fece un sogghigno sarcastico. “La mia storia? Mah, non so! Innanzitutto, ci vorrebbe tutta una giornata e poi ci vuole un cuore in grado di reggere emozioni forti!”» (pag. 262).
Ed è quello necessario per leggere le oltre 270 pagine che raccontano soprattutto fatti e atteggiamenti, di cui dovremo vergognarci, anche se non ne siamo stati diretti responsabili.
Ecco i pirrattari
Salvatore rimase orfano a 5 anni e la madre, che aveva anche due figlie femmine più piccole, come tutte le vedove del tempo aveva due alternative: tentare di sfamare i figli con le poche risorse economiche raccattate grazie alla generosità dei parenti e dalla natura o risposarsi. In questo caso, il secondo marito quasi certamene non avrebbe riconosciuti i suoi figli. A questo punto entravano in scena “i pirrattari”, i picconieri della miniera.
«Senza vergogna e senza coscienza proponevano a queste sventurate famiglie un posto di lavoro per “i carusi”. Le incantavano dicendo che la miniera aveva bisogno di loro in quanto piccoli e minuti e che il loro impegno era talmente importante che erano disposti addirittura a pagare in anticipo e in contanti molti mesi di lavoro del caruso, riservandosi però di fare firmare alla famiglia che cedeva il bambino un contratto che si chiamava soccorso morto. […] Le madri ignoravano che […] non era altro che un contratto con cui legavano fino alla morte il proprio bambino al suo padrone e di conseguenza alla miniera». (pag. 31).
E più avanti.
«Tutte quelle belle parole da parte del pirrattaru erano solo uno specchietto per le allodole. […] Ci pagavano un soldo al mese. Un soldo era meno di un centesimo, di conseguenza per la libertà sarebbero serviti anni di lavoro, sperando di non morire prima a causa di un infortunio mortale: quello veramente casuale e accidentale e quello che capitava ai carusi troppo ribelli, quelli che non avevano mai paura delle punizioni. […] Il rischio era soprattutto nel risalire le scale della miniera che riportavano alla superficie. Ogni bambino trasportava in spalla un carico di 50-80 kg, se rallentavamo il passo venivamo frustati con “u niervu”, una lunga frusta sottilissima, lasciando profonde ferite sanguinanti. Pretendevano ed esigevano massima resa, perché il loro guadagno era subordinato ad essa. Lavoravamo per 18 ore al giorno nella miniera» (pag. 33).
Sporchi, stanchi, affamati
Salvatore riuscì da clandestino a giungere a New York e comprese subito quali difficoltà avrebbe dovuto affrontare.
«Tutti in fila in modo ordinato, il volto segnato, il fisico provato: Le donne più fragili svenivano a causa di tante ore di digiuno. Tutti in fila coi bambini, ragazzini stretti per mano. Sfilavano in ordine umiliante, uno dietro l’altro con il loro pesante bagaglio accomodato con i più disparati contenitori che fungevano da valigie, spesso tenuti insieme e legati da corde, i manici grezzi tagliavano le mani […] Erano in migliaia, migliaia di nomi, figli di nessuno, uomini e donne buttati in mare per molti giorni e poi “sisvacati” (scaricati) nel porto di Ellis Island. Sporchi, stanchi, affamati. Molti vagabondavano per le vie del golfo con un minuscolo lembo di carta ripiegato dove al suo interno c’erano scritti nomi, cognomi indirizzi che avrebbero permesso loro di ricongiungersi con parenti ed amici». (pag. 87)
In questo contesto difficile e ostile Salvatore iniziò la sua lotta per la sopravvivenza, privo non solo di appoggi, di documenti, ma anche di una lingua con cui comunicare. Ben presto scoprì anche perché, pur in presenza di lavoro, per lui non ce ne sarebbe mai stato uno.
«Nei nostri confronti esistevano gravi pregiudizi. Ci definivamo “mafiosi”. Erano profondamente convinti che tutti noi avessimo nel DNA l’indole della violenza, della truffa, della mala vita. Ci consideravano ignoranti, rozzi, puzzolenti. Il mio proposito non era certo quello di vivere da delinquente, anzi, ma purtroppo avevano ragione su una cosa: la mia cultura e il mio lessico erano molto primitivi, leggevo malissimo e scrivevo in modo infantile, anche la mia firma rispecchiava la scarsa frequentazione della scuola. Avevo la prima elementare, non sapevo l’inglese e la cosa peggiore, ma di questo mi resi conto solo tempo dopo, ero convinto che l’italiano fosse il siciliano». (pag. 92).
«Era bellissima»
Ciononostante, Salvatore iniziò a capire da dove cominciare. Trovò un lavoro in un negozio di ciabattino e, grazie a questo e al suo fiuto, iniziò a fare il lustrascarpe sul marciapiede di Walt Street. L’occasione della sua vita arrivò quando un giorno intuì che in un carretto che stava giungendo c’era dello zolfo, il cui odore riconobbe ovviamente subito, che da lì a poco sarebbe esploso. Riuscì a salvare la vita di un grosso personaggio della city che volle ricompensarlo offrendogli una prospettiva di vita, fino al punto di adottarlo facendolo diventare il signor Smith. Sembrava che tutto andasse per il meglio ma la crisi del ’29 portò sul lastrico il suo benefattore e la sua famiglia. Si trattò di ricominciare e così avvenne riuscendo pian piano a mettere in piedi una buona azienda calzaturiera.
Ma il richiamo per la famiglia era sempre più forte e tornò in Sicilia, non da clandestino ma con un regolare biglietto su una gran bella nave. E lì, ancora una volta, un altro incontro decisivo, quello con colei che dopo tanti anni sarebbe diventata sua moglie.
«Alle 21:00 ero sul ponte. Lo confesso, ero emozionato: mi piaceva quella ragazza, l’avevo vista solo per qualche istante, ma mi ispirava quel “non so che”. Rimasi ad aspettarla per ore… Dovetti ammetterlo, effettivamente mi sbagliai: non si presentò con un’ora di ritardo, ma con ben tre ore! Ormai avevo perso le speranze… quando ad un tratto, nel buio della notte, intravidi un’ombra avvicinarsi. Alzai gli occhi e la vidi giungere dal fondo del ponte. Era bellissima, capelli ricciolini raccolti in un morbido chignon, orecchini e una lunga collana di perle bianca decoravano un luminoso visino, un aderente tubino lungo quasi fino alle caviglie color blu, con delle frange trasversali lungo tutta la gonna. Alti guanti in pizzo bianco abbinati alle scarpe del tacco a martello. Le andai incontro, mi tolsi il cappello, appoggiandolo al petto. Feci un piccolo inchino con la testa in segno di rispetto. Lei mi porse la mano, io accompagnandola al tavolo dissi: “Signorina, sono veramente felice che abbia accettato il mio invito!”. Lei mi guardò con occhi furbi e ammalianti. “No, si sbaglia! Non ci pensavo neppure al suo invito, solo che è una notte calda e volevo fare una passeggiata!”. Stava spudoratamente mentendo”. (pag. 174 -175)».
Dopo aver trascorso gran parte della nottata a parlare e aver così scoperto che anche lei aveva in famiglia origini siciliane, si salutarono.
«La conversazione si concluse così: “Ribattei spavaldo: ‘Certo! Mi sembra giusto, il marito deve aiutare la moglie!’”. Con uno sguardo stupito e sorpreso rispose: “Marito?! Moglie?!”. Sicuro delle mie parole continuai: “Ah già dimenticavo! … Non gliel’ho ancora detto ma… un giorno non troppo, lontano ci sposeremo!” (pag.176)».
E così avvenne effettivamente. Dopo tanti anni, si incontrarono casualmente a New York e misero su famiglia, ebbero un figlio e divennero nonni. Dopo molti anni, Salvatore tornò in Sicilia, prese con sé mamma e sorelle, e la vita familiare riprese in un contesto di riscatto umano e sociale.
Nulla accade per caso
Il racconto prosegue con tante altre vicende, compresa quella finale, nella quale grazie ad un fazzoletto Salvatore poté riabbracciare l’ormai vecchio compagno di avventura, Carmelo.
E siamo tornati all’estate del 1988 e all’incontro di Salvatore con l’autrice del libro. Le ultime 7 pagine sono quelle che Silvana Giletto, intitola “Nulla accade per caso”. E questo potrebbe essere il vero sottotitolo della sua opera. Ecco, perché.
Concludiamo con il suo racconto. Siamo nel 2018. Silvana nel locale che gestisce insieme al marito e alla figlia a Vergiate (Va) serve ad un tavolo due persone. Chiede per cortesia da dove vengono e la risposta è: Caltanissetta. Sono venuti in Lombardia per il matrimonio di un nipote. Alla parola “Caltanissetta”, Silvana dice: «Sa, io ho iniziato a scrivere una storia su Caltanissetta…» E poi aggiunge: «Sicuramente voi ne avete sentito parlare essendo del posto! Il racconto parla dei Carusi della miniera».
«L’uomo a quelle parole mi guardò fisso negli occhi, posò la tazzina sul piattino e con un filo di voce tremante rotta dall’emozione rispose: “Io lavoravo in miniera”!».
E quando Silvana aggiunge che la storia riguardava la miniera di Gessolungo, accadde l’imprevisto.
«Deglutì a vuoto e serio affermò con occhi annebbiati da lacrime: “Io lavoravo proprio lì! Nella miniera di Gessolungo».
Le emozioni di quel momento sono raccolte nelle ultime due pagine del libro. Silvana decise di concludere la scrittura del libro che nel 2020 ha visto la luce. Il sottotitolo che ha scelto Silvana per il suo libro è: “Dal buio della miniera alla luce della libertà”. Quando ci siamo salutati dopo aver letto il libro le ho detto che avrebbe dovuto cambiarlo con quello dell’Epilogo: “Nulla accade per caso”. Chi avesse ancora dubbi legga questo bel libro.
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