leggi il kanun, capisci l’albanese

Di Muca Clirim
13 Giugno 2002
In città il Kanun era come una favola, attraente, ma che non ti apparteneva

In città il Kanun era come una favola, attraente, ma che non ti apparteneva. Quando andavo dai miei, in montagna, tirava un’altra aria. Là la gente si sentiva protetta, dalla famiglia, dal fis, dal paese, persino dal paesaggio. La sensazione di una protezione continua, ecco cosa si percepiva! Seduto davanti al camino sentivo delle storie strabilianti. Per esempio, quella di un mio cugino che dal 1910 per trenta anni era rimasto chiuso in casa. Aveva ucciso per onore e quindi spettava a lui morire. Due volte uscì di casa: la prima gli spararono mentre era in giardino, la seconda mentre si trovava in cortile, ma colpirono la porta di casa. Quella porta pochi giorni dopo venne tolta e messa all’entrata della casa di colui che aveva sparato, mentre la porta della casa di questi venne montata all’ingresso dell’abitazione di mio cugino. Per quindici anni doveva durare la sostituzione, restare là quella porta bucata dalle pallottole, con i segni della vergogna di chi non ha colpito giusto, senza poter essere mossa per nessuna ragione al mondo. La legge ti dava il diritto di saldare il debito di sangue, ma non di sfregiare la casa. Mio cugino non uscì più di casa fino alla sua morte. Nell’Albania comunista lo Stato rude si era sovrapposto alla legge antica togliendo a quest’ultima la possibilità di esistere. Non riuscì a cancellarla ma soltanto la mise in una specie di letargo. Se i giudici sono corrotti e mettono in libertà gli assassini, l’albanese fa giustizia da solo, appellandosi al Kanun. Nell’ultimo decennio abbiamo visto una ripresa delle uccisioni per vendette di sangue perché mentre nel passato il montanaro cresceva in un continuo apprendimento dei paragrafi della legge, con i cinquanta anni di comunismo non solo è mancato quell’insegnamento, ma è mancato anche il nuovo.

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