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Le iniquità di uno Stato ricco di sudditi fiscali

Non è l’aliquota alta a scoraggiare la libera iniziativa. L’incubo delle aziende continua ad essere il costo degli adempimenti

Pietro Paganini
07/08/2017 - 2:00
Economia
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tasse-ansa

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Siamo sicuri che il problema è l’aliquota troppo alta? La risposta è no. È vero che un’eccessiva tassazione, come quella italiana, frena gli investimenti così come i consumi, ma non è affatto detto che ad una minore tassazione segua un’iniezione destinata ad investimenti e consumi che alimentano la crescita economica. La curva di Laffer che piace tanto ai promotori della dottrina libertaria dovrebbe aiutarci a dimostrare e comprendere il punto di rottura tra l’aliquota di imposta e le entrate fiscali, o meglio quel livello di prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente. La curva di Laffer però è uno strumento rigido che non considera alcune variabili essenziali, a cominciare dalle scelte strategiche degli imprenditori. Così scopriamo che l’aliquota fiscale troppo alta non è sempre il vero problema.

Una serie di studi fatti in Italia e all’estero dimostra che il problema più urgente per le imprese è il funzionamento della macchina pubblica rispetto al cittadino, quindi la burocrazia. Segue l’adeguamento ed insieme il rispetto delle regole, cioè la giustizia e, solo da ultimo, il livello di aliquota fiscale. Per burocrazia intendiamo anche il fisco, non più nella sua parte numerica, cioè quanto si deve dare o pagare rispetto a quanto si incassa, ma nel suo funzionamento, cioè per esemplificare, quanto semplice o complicato è dare allo Stato. Sembra un paradosso, ma per un’azienda un ordinamento fiscale difficile come quello italiano rappresenta una variabile imprevedibile. La prima regola di qualsiasi impresa, anche in questa fase storica di singolarità tecnologica, è proprio quella di compiere previsioni per ridurre i rischi. Così in Italia non è l’aliquota alta a scoraggiare la libera iniziativa ma il cattivo funzionamento dell’ordinamento fiscale. Proposte serie come quella recente di una tassa piatta al 25 per cento, che per altro chi scrive ha promosso già nel 2007 sebbene con un’aliquota diversa, dovrebbero essere accompagnate da misure volte a riorganizzare il funzionamento del fisco.

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Proprio il 2016 doveva essere l’anno delle semplificazioni. Così non è stato. Si stima che saranno quasi 200 milioni le comunicazioni che i contribuenti a vario titolo invieranno all’amministrazione finanziaria nel 2017, contro i 177 milioni di documenti inviati nel corso del 2016. Nell’ambito delle manovre fiscali, in nome della fondamentale esigenza di contrasto all’evasione, sono stati, anche quest’anno, introdotti ulteriori adempimenti fiscali a carico dei contribuenti. Il processo di digitalizzazione ha reso più agevole l’acquisizione dei dati da parte dell’amministrazione finanziaria ed ha determinato una riduzione dei costi di gestione per quest’ultima, ma di fatto ha traslato l’onere della semplificazione sui contribuenti e sui commercialisti.

Una democrazia liberale non dovrebbe obbligare ogni anno cittadini e imprese a sostenere costi aggiuntivi per rispettare gli adempimenti fiscali. Ridurre il numero e la complessità degli adempimenti e introdurre al loro posto la chiarezza del cosa dover fare, dovrebbe essere una linea da seguire, oltre che per stabilire un rapporto sereno tra cittadini e l’amministrazione finanziaria, anche per evitare che il costo del rispetto dell’adempimento diventi una “tasse aggiuntiva” che grava sul contribuente. Basta pensare che il costo totale che le imprese devono sostenere per la preparazione e l’invio delle dichiarazioni Iva è stimato in 8,8 miliardi di euro (studio Pwc), che è il più alto in Europa, sia in valore assoluto che per ogni dichiarazione dei redditi.

Inoltre secondo il Financial complexity index 2017, l’Italia è terza su 94 ordinamenti tributari analizzati, per la complessità del sistema fiscale, e addirittura seconda nell’area Emea. Il clima di permanente incertezza e di instabilità normativa del nostro ordinamento (l’ennesima conferma è il pasticcio sulle scadenze di pagamento compiuto ieri dal governo), incide negativamente sulla competitività dell’intero sistema paese, aumentando i costi gestionali per le imprese, scoraggiando società estere ad investire in Italia e incentivando quelle italiane a delocalizzarsi all’estero.

Il miraggio della semplificazione
L’eliminazione degli studi di settore è la buona notizia per i lavoratori autonomi. Gli studi di settore sono stati la peggiore espressione della cultura antiliberale. Le norme sono scritte e applicate come se noi fossimo sudditi da vessare e punire, e non cittadini responsabili (anche se magari non lo siamo quando sopportiamo tutto questo rinunciando al giudizio col voto). Nel contesto socio-economico attuale in cui prevarranno sempre di più lavoratori autonomi e dalle competenze ibride, è fondamentale riformare la struttura del sistema fiscale. Per farlo però, è bene insistere su questo punto, è necessario un cambiamento culturale che ci aiuti a costruire una società di uomini liberi e responsabili rispetto alle istituzioni: cittadini e non sudditi, appunto. Le premesse non sono buone. L’introduzione degli indici di affidabilità che hanno sostituito gli studi di settore resta un’incognita che ci conferma che siamo rimasti impantanati nel medesimo ambito culturale di sempre.

Ridurre numero e livello delle aliquote dovrebbe fisiologicamente favorire la semplificazione del sistema fiscale, ma non è necessariamente vero in un paese in cui la pubblica amministrazione considera i cittadini prima di tutto sudditi. La semplificazione è dunque l’obiettivo prioritario da realizzare con determinazione.

Foto Ansa

Tags: fiscoiva
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