Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio.
È uno degli appuntamenti chiave del 2019. Il 26 maggio si vota per il rinnovo del Parlamento europeo. La posta in gioco è correlata non già alle funzioni, assai limitate, che quest’ultimo svolge, quanto all’estensione dei consensi che raccoglieranno i partiti demonizzati come “populisti”, e alle ricadute del voto sulla composizione della Commissione europea. Sarà interessante seguire la campagna elettorale: si riproporrà il noioso ritornello “europeisti contro populisti”, o qualcuno troverà coraggio e lucidità per dire che l’alternativa non è “Europa sì/Europa no”, ma ruota attorno al quesito “quale Europa”? Per dire cioè che solo un profilo continentale fa cogliere la sfida della globalizzazione, di fronte a giganti come Stati Uniti, Russia, India, Cina; e che la prospettiva del ritorno agli Stati nazionali, sulla scia di Brexit, ha un alto tasso di rischio, allorché l’orizzonte coincide con il proprio cortile.
Confronto politico inesistente
Ma per dire pure che il rilancio dell’Europa passa obbligatoriamente da una revisione profonda dell’assetto strutturale dell’Unione e del suo fondamento ideologico. Se – banalizzando fino a un certo punto – le norme comunitarie riescono a essere tanto più ottuse e oppressive quanto più si preoccupano di questioni poco rilevanti, dalla dimensione della frutta al regime dell’ora legale, e invece latitano su fronti cruciali come la disciplina dell’immigrazione o il contrasto al terrorismo, ciò non avviene per caso. È l’esito di meccanismi irrazionali di formazione delle decisioni, da quello dell’unanimità (che conferisce a Malta lo stesso peso dell’Italia) a quello di tavoli ai quali ogni rappresentanza di governo vale uti singuli e non in virtù del territorio e della popolazione di riferimento. Il risultato è che nei vari Consigli dei ministri Ue lo spazio per il confronto politico è inesistente: come può realizzarsi fra 27 delegazioni, ciascuna delle quali ha pochi minuti a testa per esprimersi? È inevitabile che nei Consigli approdi per la mera ratifica solo quel che è stato condiviso dalle articolazioni tecniche: il vituperato strapotere dell’euroburocrazia non è un accidente del destino, ma la conseguenza di una struttura da riformare. Il debole profilo politico delle decisioni comuni è pur esso il risultato di questo snodo: poiché le questioni più controverse non sono affrontabili, sono messe in disparte.
Meccanismi così perversi derivano peraltro dall’ideologia secondo cui l’Unione è qualcosa che può realizzarsi solo se calata dall’alto: così impone il Manifesto di Ventotene, tanto citato, se non venerato, dagli europeisti contemporanei quanto dai più ignorato nei suoi contenuti. Lo si rilegga, nei passaggi di disprezzo verso le manifestazioni della volontà popolare, di teorizzazione di imposizioni nella sostanza dittatoriali quali snodi obbligati per raggiungere una matura democrazia europea, di individuazione di élite che dal centro delle istituzioni europee si ergono a interpreti dei bisogni dei cittadini, purché costoro siano consultati il meno possibile.
Cattolici oltre l’irrilevanza
Sarebbe utile che il confronto sul voto parta da questi fondamentali, tralasciando tanto gli slogan apologetici quanto quelli dissolutori, entrambi privi di tratto costruttivo. E sarebbe bello che i cattolici dessero segno di esistenza in vita animando il dibattito e attingendo dal ricco magistero pontificio ed ecclesiale sull’Europa, invece di scindersi fra vertici episcopali europeisti a prescindere (con qualche eccezione), assai propensi al mantenimento dell’esistente, e fedeli disorientati, spinti dall’esperienza quotidiana a diffidare non di questa Europa, per come si è realizzata, ma dell’Europa in quanto tale.
Nel discorso ai capi di governo dell’Unione del 24 marzo 2017, per il 60esimo del Trattato di Roma, papa Francesco ricordava che «si ha spesso la sensazione che sia in atto uno “scollamento affettivo” fra i cittadini e le istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. (…) È opportuno tenere presente che l’Europa è una famiglia di popoli e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti, ma tutti possono crescere nella misura in cui si è uniti». I cattolici non contenti della loro attuale irrilevanza potrebbero cominciare a vincerla sentendosi maggiormente impegnati nella costruzione dell’Europa come famiglia di popoli.