
Le ceneri del cinema italiano
Se c’è un simbolo dell’egemonia gramsciana che, finalmente, è giunta al capolinea, questo è il cinema italiano. E se c’è qualcuno che, pur avendo militato nel glorioso Pci, scrive di peggio – documentandone i tic, l’inanità, gli sperperi – di quello che ha raccontato Tempi sull’ente governativo che finanzia le pellicole di “interesse culturale nazionale”, questo si chiama Giulio Petroni, ex membro del Pci, di cui esce in questi giorni Le ceneri del cinema italiano. Scrittore e regista (ha lavorato anche con Orson Wells), il Petroni-insider della cinematografia nostrana dipinge con tratti imbarazzanti i personaggi più autorevoli del Cinema Paradiso: da Walter Veltroni a Giovanna Melandri, da Gillo Pontecorvo (che Petroni definisce «il più grande bluff del cinema italiano») ai compagni Dacia Maraini, Mario Fortunato, Giampiero Brunetta. Dal saggetto di Petroni emerge un profilo molto irriverente della cosiddetta intellighentsia progressista, dietro la cui immagine romantica e creativa si celerebbero quei vizi capitali che la sinistra ha sempre accusato i suoi rivali politici di alimentare, e cioè il clientelismo delle prebende, l’arroganza del potere, il carrierismo furbo e spregiudicato. Ci voleva Massimo D’Alema per incoronare – raccontano le cronache del convegno di Fondazione Italianieuropei – «Walter Veltroni vero esperto di cinema»? E ci voleva Francesco Rutelli – come di nuovo troviamo servito come stucchevole apetizer elettorale sul maggior quotidiano nazionale – per scoprire che il kolossal americano Il Gladiatore «non è stato girato qui, ma il potente messaggio di questo film spettacolare vale per il turismo italiano più di qualsiasi campagna elettorale promozionale dell’Enit»? E ci mancava proprio il critico di Civiltà Cattolica (fresco di cooptazione nella commissione cinema Melandri), padre Virgilio Fantuzzi, per prendere le difese di Ciprì e Maresco: «Ci sono film per i quali il paradosso è alla base del loro modo di esprimersi. “Totò che visse due volte” è uno di questi»? Come negli Stati Uniti, accanto alla patinata cerimonia della consegna degli Oscar fanno da contraltare gli irriverenti Razzies Awards, così in Italia sull’altro piatto della bilancia dei David di Donatello stanno i “Fiaschi d’oro” che premiano “il peggio” del cinema italiano. Vada l’esperto Veltroni con la ministra Melandri a constatare quanti dei film finanziati dallo Stato sono elencati fra i “clamorosi flop”. A votarli non è una commissione di esperti ma il pubblico via Internet. Quel pubblico che, secondo gli auspici degli esperti veltroniani, in questi anni avrebbe dovuto riempire le sale per assistere a film come “Il più lungo giorno” (2 milioni e mezzo di incassi) o “Ponte Milvio” (9 milioni), ai quali i commissari del gusto hanno regalato miliardi, come parte di quel malloppo di 180 (miliardi) annui, destinati alle pellicole di cosiddetto “interesse culturale nazionale”.
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