Laurent Lafforgue

Di Arrigoni Gianluca
23 Novembre 2006
«Il sistema educativo è malato. Colpa di quelli che hanno tentato di dargli una base "scientifica" buttando via anni di tradizione». Parla il grande matematico francese che vuole "rifondare la scuola"

Parigi
Si chiama Laurent Lafforgue ed è uno dei più grandi matematici al mondo. Nel 2002, nel corso del 24° Congresso Internazionale dei Matematici svoltosi a Pechino, gli venne assegnato il premio Fields, analogo del Nobel, per l’eccezionale contributo reso nell’ambito della teoria dei numeri e della geometria algebrica nella dimostrazione di una parte delle congetture di Langlands. Dal 2003 è membro dell’Accademia delle Scienze e dal 2004 ha iniziato a interessarsi al sistema educativo. A quella data risale il suo primo documento-manifesto sulla scuola, scritto con un gruppo di scienziati e dal titolo già abbastanza eloquente: “I saperi fondamentali al servizio dell’avvenire scientifico e tecnico: come reinsegnarli o come essi esprimono il loro punto di vista sull’insegnamento della matematica e del francese nella scuola primaria”. Nominato nel 2005 da Chirac membro dell’Alto Consiglio dell’Educazione, Lafforgue ne esce quasi subito, dimissionario, all’indomani della prima riunione di lavoro (sebbene un comitato di migliaia di intellettuali, insegnanti, scienziati si appelli al presidente della Repubblica perché rifiuti le dimissioni) in durissima polemica con funzionari ed esperti del ministero dell’Educazione che il matematico ritiene responsabili del tracollo del sistema scolastico francese. Attualmente Laurent Lafforgue è professore permanente al prestigioso Institut des Hautes Études Scientifiques (Ihés) ed è l’autore di un Appello per la rifondazione della scuola che sta ricevendo migliaia di adesioni. Tempi lo ha incontrato nel suo ufficio, all’Ihés.
In Francia è davvero malata, la scuola?
Sì. Tutti i livelli del sistema educativo sono malati, e in modo particolare l’école primaire (la scuola elementare, per i bambini dai 6 agli 11 anni, ndr), per me il livello più importante. Che però non fa correttamente il suo lavoro: molti bambini escono dall’école primaire con grandi difficoltà nella scrittura e nella lettura. Per non parlare dell’aritmetica. L’anno scorso, nell’abituale valutazione dei ragazzi che passano dall’ecole primaire al grado superiore, tra l’altro era stato chiesto di fare un calcolo a mente: quanto fa 60 diviso 4? Sessanta risposte su cento erano sbagliate. E la situazione non migliora con il proseguimento degli studi. Il risultato è che oggi nelle università arrivano studenti che hanno difficoltà con la lingua e il calcolo elementare e hanno una scarsa padronanza del ragionamento. Per me che sono un matematico, un baccellierato (la nostra maturità, ndr) come quello scientifico, che pur viene descritto dai media come impegnativo, quindi elitario, non ha quasi più alcun valore.
Lei sostiene che «la prima ragione per cui molti ragazzi non sanno fare una dimostrazione è la mancanza una conoscenza strutturata e approfondita della lingua». Perché?
Perché in matematica o in fisica, e più in generale quando si ha a che fare con la scienza, bisogna essere capaci di formulare frasi appropriate. E ciò è possibile solo se si studia correttamente la grammatica. Ma molti maestri non la insegnano più perché i programmi non lo prevedono. D’altronde i programmi di istruzione non richiedono in modo esplicito nemmeno più lo studio di una qualche opera o di un autore in particolare. E questo perché, sostiene la politica ufficiale dell’Éducation nationale, lo studio di opere e autori implicherebbe un giudizio di valore, cosa considerata inammissibile. Non sorprende perciò che la maggior parte dei ragazzi che si presentano al baccellierato non sappiano che Victor Hugo è uno scrittore del XIX secolo. Siamo a questi livelli. Sono convinto che le persone che hanno diretto negli ultimi trenta o quarant’anni l’educazione in Francia non avevano come obbiettivo il sapere o la cultura, ma la creazione di una nuova società, la società egualitaria.
E ha funzionato?
No, perché ci si è dimenticati che la principale funzione della scuola, primaria in particolare, è l’insegnamento delle conoscenze di base (lettura, scrittura, calcolo) e che è l’apprendimento che rende possibile la promozione sociale. Tra il 1880 e il 1960, i manuali scolastici cominciavano da cose semplici e progredivano con equilibrio verso cose più complesse. I capitoli non erano indipendenti l’uno dall’altro, come succede oggi, ma si seguivano in modo logico. Un sistema che per quasi un secolo ha permesso una effettiva promozione sociale a milioni di persone. Ripensandoci, sono impressionato da quanto i miei nonni avevano imparato, pur avendo lasciato la scuola prima dell’adolescenza per lavorare: quando scrivevano non facevano mai errori di ortografia o grammatica e a ottant’anni sapevano ancora fare correttamente i conti, grazie alle regole di aritmetica imparate da bambini. È grazie alla scuola repubblicana che personalità come Charles Peguy o Albert Camus hanno potuto emergere, nonostante avessero perso il padre quando erano bambini e vissuto l’infanzia in condizioni economicamente difficili. In appendice a un’edizione del suo ultimo libro, Le Premier Homme, è riprodotta la lettera che Camus ha scritto al suo professore quando ha ricevuto il premio Nobel. Gli diceva che era merito suo.
Il panorama che descrive è esattamente il contrario di quel supposto progresso culturale, sociale e pedagogico che, proprio a partire dal mitico “maggio francese”, dovrebbe oggi caratterizzare un sistema scolastico post ’68. Insomma, siamo daccapo?
È un fatto che la nuova scuola dell’uguaglianza sociale si stia rivelando molto più inegualitaria della precedente. Se cerco tra i giovani ricercatori, non ce n’è uno che sia figlio di immigrati. Si potrebbe pensare che possono avere un peso i fattori culturali, se non fosse che tra i giovani matematici emigrati in Francia per fare ricerca una parte viene dal Nord Africa. Ma attenzione, non sono figli di immigrati che hanno studiato in Francia. Sono venuti qui quando avevano già vent’anni e solo dopo aver studiato nel loro paese con i metodi classici, acquisendo evidentemente ottime competenze.
Chi è responsabile di questo disastro?
Il cambiamento è cominciato negli anni Sessanta e Settanta, quando alcuni giovani diplomati nelle cosiddette scienze dell’educazione sono arrivati nelle scuole dove venivano formati gli insegnanti, dicendo che era finito il tempo dell’artigianato, che era finito il tempo di una trasmissione del sapere non scientifica e che si doveva lasciare il posto a chi, come loro, aveva elaborato una teoria e un sistema razionale, più efficace perché fondato sulla scienza. Sono state così umiliate persone che insegnavano con profitto da venti o trent’anni, e lo dico per aver conosciuto personalmente degli insegnanti che tornavano dai nuovi corsi di formazione in lacrime, perché veniva detto loro che tutto quello che avevano fatto fino ad allora non era fondato scientificamente e quindi era da buttare. Il risultato è che oggi, per esempio, i corsi di francese sono impregnati di un linguaggio derivato dallo strutturalismo, tecnico, gergale, incomprensibile anche per i professori di lettere.
Cos’è lo strutturalismo?
Una teoria accademica che riguarda la linguistica e ha prodotto molte opere universitarie di valore. C’è però chi ha pensato di applicare ovunque quella teoria, anche all’organizzazione della società e ai metodi d’insegnamento. Ma non ha senso.
Le “scienze dell’educazione” hanno davvero un fondamento scientifico?
Esistono cattedre universitarie, c’è una vasta letteratura sull’argomento ma a mio avviso di scientifico non c’è nulla. Philippe Meirieu, che scrive sul settimanale cattolico La Vie e da più di vent’anni esercita una grande influenza sulle “scienze dell’educazione”, in un suo libro ha scritto che la ragione non è qualche cosa di universale ma l’espressione di una concezione particolare che viene da un desiderio egemonico occidentale. Se la ragione non è un valore universale, se la verità storica non esiste e tutto non è che una questione di opinioni, non ci si deve stupire quando nelle scuole alcuni ragazzi o ragazze musulmane finiscono con il rifiutare parti del programma perché qualcuno ha raccontato loro la storia diversamente.
Mi pare che siamo nel campo di quel relativismo denunciato da Benedetto XVI come il problema più grave dell’Occidente.
Certo. Cos’è, infatti, concretamente, il relativismo denunciato da Benedetto XVI, se non questa equivalenza dove l’opinione vale quanto la ragione? La Chiesa sta dando un contributo importante perché venga di nuovo riconosciuto il valore della ragione. L’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II è un testo davvero straordinario. Come il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, nonostante le polemiche suscitate dal modo in cui i media lo hanno presentato. L’essenziale della riflessione di Benedetto è che la fede non può fare a meno della ragione e viceversa.
Sono in molti, però, a considerare che fede e ragione siano incompatibili.
Forse ci si dimentica che Galileo era credente, che Newton era credente, che Cartesio era credente. Cos’è la scienza? La stretta separazione tra il soggetto e l’oggetto. Tra il soggetto che osserva, riflette, elabora teorie ed è l’autore della scienza, e l’oggetto che è al centro della ricerca. È un sistema che ha permesso successi straordinari ed è una delle più grandi realizzazioni dello spirito degli esseri umani. Il pericolo però è che questi successi facciano credere che la scienza può risolvere tutti i problemi e che solamente la razionalità scientifica abbia un valore. Questa pretesa può rivelarsi disastrosa, trasformando in oggetto perfino l’essere umano. Un ricercatore, che è un essere umano, in principio dà la parola a qualcosa che non è lui stesso, ma una verità. Ma rispettare la verità, che è certo un imperativo, pur essendo alla base della scienza non è la scienza, perché decidere che la verità abbia un valore non viene dalla scienza ma da una scelta che appartiene a un sistema di valori. Per questo bisogna distinguere la scienza come risultato e la scienza come pratica umana, e quindi come una delle manifestazioni della vita che, per me, ha due caratteristiche essenziali: la trasmissione e la fecondità. Accettare di trasmettere significa accettare di non essere all’origine della vita ma un anello di una lunga catena, riconoscere che riceviamo la vita e la passiamo alla generazione che segue come un dono più grande di noi. È proprio perché noi sappiamo di non esserne i creatori che la vita è per noi una tradizione e che tutto ciò che tocca la vita è una forma di tradizione. Credo che oggi, in Francia, in Europa e più in generale in Occidente, ci sia un evidente problema di trasmissione non solo dell’eredità culturale ma anche della fede.
Per questo lei, che è cattolico ma difende la scuola laica e repubblicana, è favorevole anche a un profondo ripensamento dell’insegnamento nella scuola cattolica?
Credo che l’insegnamento cattolico dovrebbe dedicare più tempo allo studio della Bibbia, al contenuto della fede e alla tradizione della Chiesa. A quanto hanno scritto i Padri e i Dottori della Chiesa. Quando parlo di studio dei testi non intendo un ricorso ai metodi “storico-critici” ma piuttosto a una lettura di tipo filosofico, che consiste nel chiarire i testi gli uni attraverso gli altri. Di fronte a un testo delle Scritture o della Tradizione, come di fronte a un testo matematico, conoscerne la genesi è secondario. L’importante è che un testo ci si offra e chieda di essere compreso, e cioè di diventare per noi un nutrimento. L’insegnamento deve lasciar percepire che il senso di quei testi è inesauribile, che non si finirà mai di approfondirli e che nessuna interpretazione può essere completa. Basta pensare che dopo più di duemila anni di ricerche i matematici stimano che non esauriranno mai il senso dell’addizione e della moltiplicazione. E quanto è più ricca la parola di Dio!

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