
Lasciarsi rapire dalla bellezza dell’Ipogeo degli Aureli
Immaginate di essere nel 1919. In un giorno di autunno a Roma. Si stanno costruendo nuovi quartieri e nuove strade nella capitale del giovane Stato unitario. Non è facile per la Regia Sovrintendenza agli Scavi trovare un accordo con la Società Trasporti Automobilistici e la Terza Cooperativa “Luigi Luzzatti” che stavano costruendo, perché quel piccolo gioiello ipogeo che le ruspe avevano appena aggredito, venisse salvato. É così che inizia la storia moderna di un mito. Quello dell’Ipogeo degli Aureli, un monumento funerario di una famiglia di liberti imperiali che testimonia l’atmosfera religiosa di un’intera epoca. Siamo nel III secolo dC, il cristianesimo non è ancora religione di stato e anzi le persecuzioni sono ancora vicine. A Roma e nell’impero convivono vari culti, fedi, credenze, idee e miti. E così la famiglia degli Aureli commissiona un sepolcro “di lusso” per mostrare la propria agiatezza con decorazioni che, si può dire, accontentano tutti. La custodia dell’Ipogeo è oggi della Pontificia Commissione di Archelogia Sacra, che recentemente ne ha curato il recupero e un attento restauro che ha aperto nuovi spazi per l’interpretazione ancora molto discussa dagli studiosi.
In effetti quando in un cortiletto in una strada non lontano da San Giovanni in Laterano, si apre la porta metallica che sembra un deposito, ci vuole un po’a capire che, invece, si entra nel mito. Una volta oltrepassata la porta che custodisce temperatura e conservazione, quello che attira subito lo sguardo è la incredibile serie di affreschi che circondano ogni parte del monumento. Filosofi, pastori, maestri che insegnano, ma anche racconti omerici e forse biblici, come la Creazione e Adamo ed Eva, che si intrecciano con decorazioni e volti. E più si scendono i profondi gradini, più i dipinti diventano affascinanti e misteriosi, difficili da interpretare e da legare a un credo religioso o a un’appartenenza ideologica. Siamo al tempo dei Severi (193-235) fino all’impero di Gallieno (253-268). “L’ipogeo degli Aureli è incluso all’interno della cerchia muraria di Aureliano, il cui circuito fu definito nel 273 d.C., per cui esso fu costruito e sfruttato entro questo termine cronologico”, spiega il professor Fabrizio Bisconti, Sovrintendente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Ma gli Aureli erano pagani, cristiani o eretici? O forse tutte e tre le cose, come si preferisce credere oggi. Ultimamente un lavoro raffinato di ripulitura degli affreschi grazie all’uso della tecnologia laser ha portato un po’ di chiarezza. “Lo stato attuale delle ricerche, spiega Bisconti, attribuisce all’ipogeo una definizione sincretica, in perfetta coerenza con il clima multireligioso che si respira a Roma nella prima metà del III secolo d.C.” Un’epoca che potrebbe assomigliare anche alla nostra.
Un’epoca di transizione politica e di tolleranza religiosa che però spesso sfociava in un pericoloso sincretismo. Il pantheon romano accoglieva un po’ tutti gli dei e così, all’inizio, accolse anche i cristianesimo. E i cristiani si trovano a usare gli spazi dei pagani anche per le sepolture o per il culto con le domus ecclesiae, case private dove ci si riuniva per celebrare l’Eucaristia o il Battesimo. Il primo cimitero totalmente cristiano e “pubblico” voluto e gestito dalla Chiesa, da Papa Zefirino è quello cui sovrintende il diacono Callisto sulla via Appia tra il 199 e il 217. Catacombe espressamente cristiane. Ma l’Ipogeo degli Aureli è una sepoltura familiare, privata. Non ci sono programmi iconografici ufficiali da seguire. E così i committenti intrecciano ellenismo, vita di un aldilà indefinito, epica omerica, mitologia classica e, ovviamente cristianesimo: la religione emergente.
Dopo un restauro durato dieci anni, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ultimamente, grazie al laser, hanno compreso che a fianco della scena ispirata al X canto dell’Odissea, con Circe che trasforma i greci porci, è rappresentata una defunta, forse Aurelia Prima, che compiange i due fratelli Aurelius Onesimus e Aurelius Papirius situati sul “lectus funebris”, all’interno di un recinto funerario, collocato presso una villa rustica del “fundus” degli Aureli, dislocato probabilmente nel suburbio romano. “Questa scoperta, ha spiegato il professor Bisconti presentando il restauro alla stampa, insieme a una migliore definizione della scena omerica e delle adiacenti rappresentazioni del banchetto funebre e di una vivace teoria di beati, perfezionano le nostre conoscenze su un complesso programma decorativo, che raffigura i tre Aureli, ricordati da un’iscrizione musiva, calati in un beato locus amoenus e rappresentati come pastori, filosofi, commensali, retori e cavalieri, in perfetta sintonia con il desiderio di autorappresentazione della classe sociale dei liberti, che elabora un’idea dell’aldilà estremamente eclettico, all’insegna dell’otium campestre e della riflessione filosofica, che si consumano in un habitat oltremondano che prepara e annuncia il paradiso dei Cristiani.” La visita, per motivi di conservazione, può avvenire solo su richiesta alla Commissione e per piccolissimi gruppi. In compenso c’è una utile pubblicazione degli studi e dei restauri: “L’ipogeo degli Aureli in Viale Manzoni. Restauri, tutela, valorizzazione e aggiornamenti interpretativi” a cura diFabrizio Bisconti, edito dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra 2011. Ampia e facilmente accessibile anche a un pubblico non specializzato con immagini che lasciano negli occhi la vivacità dei colori e la incredibile freschezza dei disegni e il prezzo decisamente abbordabile di 30 euro.
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