L’arte umana di The Doctor

Di Emanuele Boffi
15 Dicembre 2005
L'OCCHIO CLINICO E L'OCCHIO ARTISTICO IN UNA MOSTRA CHE NON VUOLE RIDURRE LA MEDICINA A MERO RICAMBIO MECCANICO DI PEZZI ROTTI. INTERVISTA A JEAN-PHILIPPE ASSAL

«Tutta una biblioteca non farebbe ciò che questo quadro ha fatto e farà per la professione medica: rendere il cuore del nostro prossimo familiare e caro a noi. Soprattutto, qualsiasi sia il grado raggiunto nella tua professione, ricordati sempre di tenere di fronte la figura del quadro di Fildes, ed essere al tempo stesso un nobiluomo e un nobile medico». Secondo la tradizione queste furono le parole con cui un illustre medico di tarda età vittoriana invitò i suoi colleghi ad osservare “The doctor”, olio su tela del pittore Sir Luke Fildes. Oggi, un altro illustre medico, Jean-Philippe Assal ripete il medesimo invito: «è l’immagine strabiliante di quale dev’essere il compito del medico: essere presente sempre, anche quando non c’è più niente da fare, anche quando il limite della condizione umana sembra prendere il sopravvento».
Luke Fildes aveva perso il figlio Philip la mattina di Natale del 1877. Il quadro è un tributo al dottor Murray, l’uomo che tanto spesso il pittore doveva aver visto accanto al corpo del figlio, ritratto pensoso eppur partecipe al destino ormai segnato della piccola creatura, illuminata da una lampada e dalla luce di un’alba che lascia presupporre una notte d’angoscia. Sullo sfondo, tra il nero del buio il padre ritto in piedi in tutta la sua dignità e la sofferenza piegata della madre su un tavolino di umile legno. L’opera ebbe un tale successo da diventare ben presto il simbolo dell’eroica quotidianità dei medici condotti cui tanti – come Fildes – avevano avuto la ventura e la disavventura di testimoniare. E dovette anche in qualche modo portare la classe medica a una più drammatica e razionale consapevolezza del proprio ruolo se, come scrisse Lancet nel 1887, criticando la moda della diagnosi per telefono: «Il dottore, da un punto di vista medico, non può fare nulla di più per salvare la bambina. Allora perché è ancora lì? Può soltanto rimanere vigile, guardando il respiro lieve della bambina che va via via affievolendo. Ora, immaginate un quadro con una scena differente, con la sedia del dottore vuota e i due genitori distrutti con in mano la cornetta del telefono».

Educazione terapeutica
Jean-Philippe Assal è professore alla facoltà di medicina di Ginevra di cui ha diretto per anni il settore che si occupa delle malattie croniche. Ora è nel comitato della Croce Rossa internazionale a Ginevra ed è collaboratore stimato dell’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità). Ha scritto la prefazione al catalogo della mostra “Curare e guarire. Occhio artistico, occhio clinico”, presentata all’ultima edizione del Meeting di Rimini, a cura di Giorgio Bordin dell’associazione Medicina&Persona. La rassegna – che gira non per musei ma per corsie di ospedali – è, per Assal, «un lavoro straordinario perché mette in luce l’importanza dell'”occhio clinico”, questo sguardo del medico che sa andare oltre la realtà del corpo e penetra anche nel vissuto del paziente. Questo “occhio clinico” ha la stessa importanza dell’occhio artistico, questo sguardo del pittore che decodifica la realtà e permette di vedere più in là della realtà formale». Con questa affermazione Assal non vuole certo discostarsi dall’idea che la cura del corpo sia affare di una filosofia dalle nuvole in su, ma vuole, piuttosto, insistere sul fatto che «occorre educare innanzitutto i medici a rapportarsi coi loro pazienti». Assal racconta che «quando ero un giovane medico lavorai per un anno nel reparto di cure intensive e vedevo i miei pazienti soffrire e morire. Stavo male io per primo per la mia incapacità a poter recare loro sollievo. Nel reparto c’erano un sacerdote cattolico e un pastore protestante. Questi due religiosi, a livello tecnico-medico, non sapevano nulla, ma erano per noi miniere preziose di consigli su come rapportarci con i malati e i loro congiunti». Sulla base di questa intuizione – secondo cui il malato cerca nel medico non solo un rimedio al male, ma anche un compagno capace di condividere la sua sofferenza – Assal ha creato in Svizzera un corso di “educazione terapeutica”. «Sì, ma non l’ho “inventata” io – chiarisce – ma le nostre nonne e le nostre mamme. Sono loro le prime ad aver fatto dei passi in questa direzione, quando portavano al bambino malato l’acqua e il miele. Alla base dell’intervento medico c’è la compartecipazione alla sofferenza altrui. Solo poi arriva la medicina, con i suoi vaccini e i suo bisturi».

Tanti bei convegni di psicologi
Una sezione della mostra è dedicata ai “ciarlatani” e bonariamente riporta le opere di artisti che hanno messo alla berlina la scienza medica e i suoi protagonisti, finti medici per reali malati. Il sorriso si accompagna sempre alla critica, come nell’opera di José Perez, “Il chirurgo”, che raffigura dottori gnomi intenti nell’operare un gigantesco corpo umano. Fra carrucole e corde che si tendono, si staglia quest’enorme figura cui sono stati estratti pezzi di scarto accatastati in un angolo. L’affaccendarsi dei medici lillipuziani attorno al corpo-macchina del paziente è una punzecchiatura feroce alla medicina ridotta a pratica di meccanica sostituzione di pezzi di ricambio. Per Assal, «senz’altro oggi vi è una tendenza scientifica a cercare di analizzare e formalizzare il funzionamento dell’organismo come se fosse una macchina». Eppure questa robotizzazione del corpo umano «è ciò che vi è di più lontano dalla medicina». Perché, oggi, ai sacrosanti progressi scientifici e tecnici («una benedizione del cielo se servono a diminuire le sofferenze dei pazienti») si accompagna sempre meno «una visione integrale dell’uomo». Per cui «vi è un frammentazione dell’arte medica in tanti settori specialistici, che spesso fan perdere di vista l’integrità dell’oggetto: l’uomo è uno nel suo aspetto spirituale e materiale. Se noi affidamo l’aspetto “invisibile” alle cure degli psicologi avremo fatto tanti bei convegni, ma ben poco avremo fatto per i nostri pazienti».

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