Curata da Martina Mazzotta, la Cina invade l’Italia grazie all’opera prestigiosa del cinese Mao Jianhua, pittore che tesse con mani leggere eppur precise le proprie tele, anzi pare accarezzarle all’infinito donandole all’eternità di luoghi e tempi. Tempi e luoghi che per quanto eterni sono pur sempre vivissimi e come pronti a colpire, a incutere timore per la loro maestosità ma anche a infondere una pace zen. È questa contrapposizione fraterna che illumina e ombreggia l’opera di Mao, opera spettacolare anche nel tratto che ci conduce in luoghi misteriosi, sacri, scagliati verso il cielo eppur legati a una nobile terra. I Paesaggi di Mao raccontano della sua verità interiore, riflettono lo stato vibrante della sua anima dischiusa allo sguardo del visitatore. I suoi straordinari dipinti s’inquadrano “nell’ampio spettro” del Shan Shui – tradizione letteraria e pittorica che risale a millecinquecento anni fa. Essi stimolano a conoscere la dimensione del legame unico fra tradizione e modernità in Cina. I due piani, antico e moderno, si mescolano senza contrapporsi in un equilibrio di forze. Per Mao il tempo è sempre quello della nascita e della morte, il tempo dell’inizio in cui si contempla l’intreccio tra macrocosmo e microcosmo rappresentato dal simbolo del Tai Chi dove i due aspetti contrapposti del Tao, dipinti in bianco e nero, si completano a vicenda.
Potremo vedere le sue opere a Roma, dal 13 al 26 settembre al Vittoriano, sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento, la prima tappa della mostra The Timeless Dance. Beyond the Mountains, un viaggio fantastico il quale pochi anni fa era riuscito a penetrare per la prima volta nei nostri musei. Chi è Mao Jianhua, quali doni porta con sé in giro per il mondo? Mao nasce nel 1955 a Changshu, e i suoi dipinti sono spesso firmati con gli pseudonimi di “Jizushanren” (uomo di Jizu, la montagna dove Mao si reca regolarmente per la meditazione) o “Zhuoweng” (che descrive un uomo che segue la propria natura primordiale, spazza via ogni pretenziosità e decori artificiali, rifacendosi all’infanzia e alla vera natura).
Ma non è una pura coincidenza, ci racconta Martina Mazzotta, che una decina di anni fa Mao inizi a imparare a dipingere. Mao imprenditore di grande esperienza ha da sempre coniugato lo studio dell’antica sapienza cinese al suo lavoro imprenditoriale, con esiti sorprendenti soprattutto nella calligrafia e nella pittura. Il risultato di questo processo, culminato nei quadri, è avvenuto solo grazie alle sue conoscenze e pratiche di ascendenza buddhista zen e taoista. Con la costante presenza di un Maestro, Mao si è esercitato in completo isolamento nella meditazione, scoprendo il rapporto simbiotico con la natura. È tra il 2007 e il 2009 che l’artista incontra il suo spirito, quello che lo fa concentrare su disegni che prepotentemente richiamano i famosi pittori della dinastia Qing: Wang Shimin, Wang Jian, Wang Hui e Wang Yuanqi. I quattro “Wang” dipingono paesaggi, così come i paesaggi dipingono i Wang, uno scambio di artifici e grandezza di rara potenza. Mao si adegua, coglie la forza dei maestri e tra il 2009 e il 2013 si concentra nella pratica degli stili pittorici dei quattro grandi artisti di un’altra dinastia gli Yuan, ovvero Huang Gongwang, Wang Meng, Ni Zan e Wu Zhen. Mao ne interroga le pennellate, e sviluppa il proprio modo creativo di applicare l’inchiostro sulla carta, poi inizia la propria esplorazione della natura. Cammina per le montagne, vede quel che a lungo ha visto dentro di sè, incontra quel che attendeva e sognava. Tante cose entrano in lui, cose che si aspettava, immagini danzanti che si aprono al suo cammino. Se la tradizione e la patria sono la sua forza, la sua arte è espressione del proprio sé, il suo gettarsi nell’impresa artistica, nel vuoto che si apre di chi non ha più Io, lo preserva, in una luce che è anche tenebra, una tenebra luminosa, pietre che sono anche acqua, un cammino che pare volgere le spalle al presente e al contempo lo incontra. Ecco allora «un movimento continuo degli occhi, della testa, del proprio corpo, del proprio respiro. Ci si sente come senza peso, agili nel percorrere ripide vie in salita, impervi sentieri che solcano alte montagne rocciose, per poi ricadere giù, su rivoli e distese d’acqua, a osservare le sagome polimorfe di alberi fitti e di cespugli che paiono animarsi. Poi nuovamente su, sempre più su, improvvisamente sospinti a camminare sulle nuvole, fino a disperdersi in brani di bianco abbagliante e puro». Un’ascesa e una caduta lieve, siglata dall’enigma che pure presiede al mistero, filosofia appunto, meditazione guerriera, inchiostro nero come consuetudine e acqua, altra necessaria e sacra necessità.
Per questo, se si vuole intendere a pieno il senso vivificante delle opere di Mao bisogna essere a propria volta spiriti liberi, pronti, aperti, capaci non di osservare un quadro per servirsene, ma sapienti nel contemplarlo, e si sa che la contemplazione per sua natura dona un’indipendenza totale dall’oggetto contemplato, dona “la calma interiore e l’unità della mente scevra di ogni applicazione sugli oggetti di meditazione” atta a confermare quella conoscenza che già da sempre possediamo, o pensiamo di possedere, o sorridiamo al solo pensiero di possederla, il che, per lo Zen e i cinesi, è il colmo della calma.
L’autore, come abbiamo detto, ha compiuto la sua opera, facendo suoi alcuni degli essenziali principi dello Zen. Ma che cosa è lo Zen? Una derivazione del Buddhismo Dhyana sorto in India, sbocciato in Cina con il nome di Chan e giunto sino in Giappone. Tradizione coltivata tutt’ora per accedere a sempre nuovi modi dell’esistenza, modi inaspettati, inediti, mai pensati prima, la cui conoscenza riveste per l’esistenza umana un significato immutabile. Una pratica semplice che richiede però dedizione totale, un oblio di sé, del falso sé, senza remore né piagnistei. Solo così si entra in contatto con la profondità senza fondo dell’anima, profondità indicibile, che si può solo intuire, non intendere. La pittura di Mao come puro esercizio spirituale? Certo come risultato di tutti gli esercizi tipici della filosofia Zen e del Taoismo in cui si ingaggia una lotta con se stessi, e il nemico siamo noi in carne e ossa, per giungere a un cuore avulso da secondi fini, un cuore puro, libero di battere al suo ritmo e non assoggettato ai propri bisogni, come spesso si tende a fare creando quella frattura tra corpo e spirito che ci fa sentire prossimi alla morte. Non è un caso che i maestri Zen rappresentino questa lotta con se stessi con la metafora dell’arciere. Il tiratore in questo caso non ha alcuna finalità pratica ma esclusivamente spirituale, non mira a un obiettivo esterno, ma a stesso: egli è “miratore” e “bersaglio”, colui che “colpisce” e viene “colpito.” Il seguace dello zen prende arco e freccia ogni giorno, tende la corda dell’arco carica la freccia per scagliarla simbolicamente su di sé, ma in realtà restando fermo, sino a che non apprende con l’esperienza di esser divenuto lui immobile centro.