Laico, cioè realpolista

Di Luigi Amicone
08 Marzo 2000
“La politica delle alleanze? Una cosa talmente ovvia nel contesto del sistema elettorale vigente che mi sembra fin strano dicuterne. Dubbi sul maggioritario? Capisco le obbiezioni di Andreotti, ma la politica è decisione su quello che c’è. E su Giovanni Paolo II dico: è un grande condottiero che io, laico, guardo stupefatto”. Parola del primo giornalista italiano che nella aristocratica (e sempre un po’ sciovinista) Parigi impianterà (dal prossimo autunno) un quotidiano nato in Italia, naturalmente Le Feuille

Intervista di Luigi Amicone a Giuliano Ferrara Domenica scorsa, in una chiesa della cattolicissima Brianza, mentre il Papa rientrava dal suo ultimo viaggio in Africa, chi scrive ha sentito con le sue orecchie l’ennesima predica terzomondista in cui perfino la tazzuriella o’ café, per metaforica associazione al capitalismo vampiro, diventava, testuale: “una tazzina che cola sangue degli sfruttati del terzo mondo”. Uno va a messa e non capisce perché gli capita sempre più spesso di provare la sensazione che per essere preti ultimamente pare sia necessario chiudere in cassaforte tutti gli attributi umani, dall’intelletto a quant’altro, e rimanere folgorati sulla via dei Veltroni, con tutto il rispetto per il segretario dei Ds. Poi uno stuzzica al ragionamento politico un laicissimo direttore del Foglio e si trova inchiodato a riflettere sulla “ciclopica presenza” di Giovanni Paolo II. Direttore, oltre ad averlo sponsorizzato e sposato per primo, il tuo giornale ha anche spiegato molto bene l’importanza di un accordo elettorale tra Berlusconi e Pannella. Avevi convinto perfino Andreotti. Ma a quanto pare l’ipotesi B&B alla fine è saltata. Adesso cosa succede? Noi siamo contro il delirio dei vaneggiamenti pre-politici, nel senso che pensiamo che dove ci sono delle regole vanno osservate. E una regola evidente è che se ci si presenta alle elezioni bisogna tentare di contrarre delle alleanze per vincerle. Queste alleanze devono essere commisurate al sistema elettorale vigente. Naturalmente, da questo punto di vista, un accordo a più livelli tra le diverse opposizioni – l’opposizione polista, quella leghista e quella radicale – sarebbe stato un en plein, un fattore di successo chiaro. Questo accordo, naturalmente, avrebbe dovuto avere un garante e si era proposto, esponendosi personalmente per esserlo, Berlusconi – garante nel senso che ci sono delle differenze nei diversi soggetti che vanno mediate e composte, rielaborate in una sintesi di programma avanzata… Si poteva fare: nel ’94 si fece esattamente così ed è, a quanto mi ricordi, l’ultima vittoria di una classe dirigente in formazione che poi è stata rinviata all’opposizione. Nelle ragionali del ’95 non si fece e le cose non andarono molto bene: furono una delusione per il Polo. Non si è fatto nel ’96 ed è successa esattamente la stessa cosa, cioè ha vinto l’Ulivo, che governa da quattro anni. Se si continua su questa strada le conseguenze saranno prevedibilmente le stesse, o almeno minacciano di essere le stesse. Per questo riteniamo che si tratti di autolesionismo da parte di una opposizione che non sa raggiungere un grado sufficiente di unità per battere il governo. Ma mi viene da ridere dicendo queste cose, perché sono così evidenti, così banali e così ovvie che sembra perfino strano doverle ripetere.

Sei l’alfiere del modello bipartisan in un’Italia dove le famiglie politiche si compongono e si ricompongono secondo criteri molto diversi da quelli richiesti dal maggioritario. Non c’è solo la logica della navigazione a vista di Mastella , c’è anche il proporzionalismo di un Bossi o di un Bertinotti, schierati in difesa di identità politiche che verrebbero schiacciate dal sistema bipolare. Siamo pur sempre in Italia, non negli Stati Uniti, hai mai avuto ripensamenti sul maggioritario? Ma certo: io non ho dogmatismi di sistema elettorale. Fra l’altro lo sappiamo tutti che esiste un maggioritario con proporzionale, cioè è maggioritaria anche una legge elettorale che partendo dal proporzionale preveda però il premio di maggioranza per la coalizione che prevale.

Forme alternative di tipo maggioritario alla legge proporzionale pura o alla proporzionale corretta, che era la vecchia legge elettorale della prima repubblica, ce ne possono essere moltissime.

Turno secco, a due turni, misto, alla tedesca, col cancellierato… c’è poi il legame tra legge elettorale e forma di governo. Ma io considero tutte queste discussioni come questioni assolutamente tecniche, cioè di ingegneria istituzionale. Invece il grande problema è politico. Noi abbiamo una legge elettorale, non è che non l’abbiamo, allora bisogna fare i conti con la legge elettorale che c’è. Poi possiamo auspicare una legge elettorale proporzionale, si può fare del ritorno al proporzionale una bandiera, come fa Bossi, o si può semplicemente esitare o indulgere, come fa Berlusconi, verso l’ipotesi di un ritorno. Però la sostanza politica di tutta la faccenda è che il proporzionale in Italia non tornerà. Non ci sono forze e interessi coalizzati sufficienti per farlo tornare. Le leggi elettorali sono il prodotto di maggioranze storiche. Allora: questa legge maggioritaria è nata perché è crollato il vecchio sistema che non aveva più fonte di legittimità sufficiente. La Dc e il Psi sono scomparsi sotto i colpi dei magistrati e il compromesso del Parlamento, nel disperato tentativo di salvarsi di fronte all’ondata di impopolarità del vecchio sistema politico, fu quello di innovarsi in questa forma parziale, cioè facendo ricorso a un maggioritario al 75% con il recupero proporzionale del 25%. È un grave compromesso d’epoca la nuova proporzionale, può essere corretto da un referendum, ma solo da un referendum che perfezioni il carattere rigidamente maggioritario della legge. Sono questi i referendum che vengono proposti da milioni di cittadini, che vengono votati o non votati ma la direttrice di marcia ormai è questa. Non vedo segni di nessun genere, seri, concreti, di ritorno al proporzionale. Non mi pare una cosa proponibile. Allora io mio domando che succo c’è a parlare di leggi elettorali che non verranno mai approvate? Conformiamo la natura, le identità delle coalizioni nella rete delle alleanze alla legge elettorale che c’é, invece di fare finta che non ci sia. Non ci sarà mai un’alleanza dei proporzionalisti, decente, maggioritaria, nel Parlamento. E quindi non c’è succo nemmeno a parlarne. Questa è la legge e vuol diventare ancora più maggioritaria, ancora più uninominale – perché il progetto quello è – e dopo il referendum si potrà correggere, ma sempre in quella direzione, per l’abolizione della quota proporzionale. Quindi mi spiegate che senso ha andare verso il proporzionale? Un esperimento accademico, una cosa di scuola? A meno di un fatto politico così travolgente da causare un ripensamento generale della classe dirigente, così come è successo quando il Parlamento ha varato la legge attualmente vigente.

Però ci sono politici del calibro di un Giulio Andreotti o di un Francesco Cossiga che promettono di spendere la loro ultima stagione di vita politica per il proporzionale con sbarramento al 5%…

Ma quella è testimonianza, sono pareri, cose che contano per temperare certi ardori, per fare riflettere la gente, figurati se non lo capisco! Andreotti e Cossiga fanno un ragionamento che assomiglia alla loro storia politica. Esprimono un disagio e una critica per come questa legge è stata gestita. Purtroppo io vedo poche persone che siano così lineari da sottolineare che il problema del maggioritario in Italia esiste e non esiste: se a Berlusconi non è stato consentito di governare mi può anche star bene, nel senso che può sempre succedere, potrebbe succedere non solo a Roma, ma persino nel Parlamento di Westminster. Il problema è che un minuto dopo bisogna fare le elezioni e verificare. Questo non è stato fatto ed è l’origine della frammentazione in partitini e delle degenerazioni del nostro sistema. Io capisco quello che dice Andreotti, certo, meglio lo sbarramento al 5%. Il problema è che non esiste attualmente una prospettiva politica in questo senso, esiste solo una una testimonianza, cioé una cosa che si può dire per il gusto di affermare una dottrina riformista migliore di un’altra. Ma non è questo il problema dei leader politici: ne devono tenere conto, possono rifletterci, calibrare più o meno la loro politica su questi giudizi, ma non possono subordinarla ai dibattiti. La leadership politica è decisione su ciò che c’è, non speculazione su ciò che non c’è.

Angelo Panebianco dice che a ben vedere la vera causa del profondo malessere italiano è la crisi del partito dei Ds. Ti rilancio il quesito con cui Panebianco ha chiuso un suo editoriale sul Corriere: basterà l’abrogazione della quota proporzionale per arginare questa crisi? Sì, il centrosinistra ha una sola legittimazione, la battaglia contro Berlusconi. Questa è la verità, lo si è visto e lo si è capito. Quindi alla fine il solo collante del centrosinistra è il fiancheggiamento dell’iniziativa dei magistrati – che fu evidente e palese nella cosiddetta carovana progressista sconfitta nel ’94 – e una tendenza, sulla scorta di questa linea giustizialista, a farsi regime, cioè ad occupare posti, a combinare potere politico e potere culturale. Quindi a costruire l’egemonia contro un’Italia sociologica che è in maggioranza all’opposizione, l’Italia di quelli che pagano le tasse, di quelli che intraprendono, il popolo delle partite Iva, l’Italia dei liberi.

La sinistra – e i Ds in particolare – è priva di anima, priva di senso del passato, quindi effettivamente vagolante, in crisi. E i Ds sono il fulcro della crisi di tutta la coalizione, anche perché sono l’unico partito vero della coalizione, l’unico partito effettivo, con un minimo di radici. Mi pare che Panebianco abbia ragione.

Mi pare che anche gli altri governi europei non stiano molto bene. Chirac e Jospin si fanno sgambetti in politica estera, Schroeder ha cominciato a governare dopo la caduta da cavallo di Kohl, l’Austria lamenta di essere trattata dall’Europa peggio della Libia di Gheddafi. È vero che la politica è la palo e che, come si dice oggi, la new economy corre per i fatti suoi? È vero soprattutto che la politica conta meno, perché l’Europa di 15 anni fa era l’Europa dove gli stati decidevano tutto. Decidevano attraverso la leva fiscale, la leva della spesa pubblica, al di fuori di ogni limite e di ogni contratto collettivo come quello dell’Euro. Avevano l’industria pubblica, il modello cosiddetto renano, cioè erano molto integrati verso le politiche di concertazione con i sindacati. Orientavano la società. Oggi non è tanto questione di new economy, c’è stato un radicale cambiamento da questo punto di vista. È vero che il mercato si è preso un enorme spazio, è vero che l’espandersi della possibilità di comunicare, l’abbattimento delle frontiere in ogni senso – non solo attraverso gli accordi di Shengen ma anche attraverso la diffusione della rete telematica, i movimenti di capitali, l’andamento delle borse mondiali, l’emergere dei paesi asiatici, la devoluzione all’estero del lavoro e degli investimenti industriali, la crescita in scala delle grandi concentrazioni finanziarie – hanno cambiato tante cose in un mondo in cui ci sono banche che hanno depositi ormai equivalenti alla spesa pubblica di paesi medio-grandi. Tutto questo è avvenuto e ha preso per sé il segnacolo del progresso. È la parte che si considera a giusto titolo sotto il segno dell’innovazione, dove si sperimentano cose nuove, si vede come vanno a finire e c’è la promessa di accrescimento. C’è questo fenomeno incredibile di 120 mesi di crescita americana sostenutissima, adesso parte la Francia col 4% di previsione per il 2000. È stata la lezione delle rivoluzioni conservatrici tatcheriane e reaganiane. Il segno fondamentale di tutto questo processo è che la politica conta meno, è meno importante, il grosso della vita degli uomini è regolato e governato da fattori economici che sono meno controllati di una volta dal potere politico. Poi la politica diventa inevitabilmente, si introduce anche un tasso di “variabilità”, non dico di dilettantismo ma di variabilità, di volubilità. Questo spiega certi fatti apparentemente inspiegabili.

Leggendo Il Foglio si nota una non pregiudiziale attenzione per la funzione della Chiesa cattolica nel mondo moderno…

Il punto è che Giovanni Paolo II è un grande condottiero della nostra epoca. Ovviamente è un’autorità carismatica, religiosa, è il figlio di una storia secolare che è quella della Chiesa di Pietro, la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Detto questo – che è ovvio – la capacità di proiezione di questo Papa sul secolare è prodigiosa. Nel senso che è un Papa territoriale che ha fatto del mondo la sua diocesi. Questo si sente perché quando ad un Papa tu puoi attribuire il massimo della modernità nella gestione della propria immagine, quando la sua forza simbolica si moltiplica e penetra nel profondo dei continenti attraverso i viaggi apostolici, quando la Chiesa cattolica diventa il fattore determinante della ricostruzione di una Europa del dopo guerra fredda – perché il Papa si pone al centro del passaggio dal comunismo al post-comunismo – e quando contemporaneamente questo papato mantiene accesa la fiaccola di una critica al contemporaneo, al modo di vita moderno, che è anche una critica delle mezze soluzioni o delle non soluzioni che riesce a proporre il capitalismo, la sua figura giganteggia, non è Il Foglio che la fa giganteggiare. Noi ci limitiamo a leggerla nella sua ciclopica presenza. Perché questo è il Papa oggi, questo ha fatto il Papa, non è che ha fatto meno di questo. Poi dentro la Chiesa cattolica questo Papa può mantenere di paolino – nel senso di Paolo VI – certe ambiguità, un certo discorso sulla vita, un certo discorso di dottrina e di profondo, convinto tradizionalismo per quanto riguarda i comportamenti della persona, lo statuto della famiglia, i costumi. Ma Giovanni Paolo II ha insieme posto questi limiti e li ha travolti. La sua adesione alle crisi multiformi e multipolari del mondo moderno è totale. Quando leggo la povera polemica di Veltroni sulla questione della contraccezione e dell’Africa e penso ai viaggi africani del Papa vedo tutta la differenza fra un simbolo e un chierichetto. Quello sta lì a fare dei discorsi, questo è un Papa evangelizzatore, che ha messo la promozione umana al servizio dell’evangelizzazione e non viceversa. Giovanni Paolo II è un trascinatore, uno che vuole affermare – naturalmente nel dialogo interreligioso – ma, insomma, è con ogni evidenza un Papa che si è proposto la conquista del mondo moderno da parte della Chiesa che non voleva farsi relegare in un cantuccio. Non voleva essere Chiesa del silenzio in un mondo comunista e Chiesa della convenienza e del compromesso nel mondo Occidentale liberale. Quindi ha picconato e sconvolto l’ordine esistente. È un grande Papa, rivoluzionario, per questo noi lo guardiamo con interesse e stupefatta curiosità.

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