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Home Società

L’aborto è “sollievo” o “indifferenza”. Se è rimpianto è colpa dei pro-life

Uno studio americano sulle emozioni e lo stigma associato all'interruzione di gravidanza conclude che: le donne non si pentono e se si pentono non fanno testo

Caterina Giojelli
14/01/2020 - 2:00
Società
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Dopo lo strampalato discorso di Michelle Williams ai Golden Globe, l’attrice che con pancione e premio in mano ha ringraziato «una società in cui è possibile scegliere di abortire», ecco le strampalate conclusioni tirate da un serissimo studio sull’aborto. Condotto dai ricercatori dell’Università della California a San Francisco e reso disponibile sul portale di ScienzeDirect, lo studio, che implementa e aggiorna lavori precedenti, si intitola “Emozioni e correttezza decisionale a cinque anni dall’aborto: un esame della difficoltà decisionale e dello stigma dell’aborto” e afferma che il 95 per cento delle donne che ha interrotto una gravidanza non è pentita di averlo fatto.

ROTTAMARE L’ABORTO COME TRAUMA

L’intento dichiarato dai ricercatori è duplice, da un lato mostrare la debolezza delle teorie «sottostanti alle leggi che regolano a livello statale l’aborto negli Stati Uniti», che contemplano la possibilità che una donna possa avere dei rimpianti per avere deciso di ammazzare il proprio bambino. In pratica lo studio si scaglia contro il periodo di attesa, di solito di 24 ore, previsto dalle normative perché una donna possa riflettere sulla sua decisione, attesa che secondo i ricercatori metterebbe a repentaglio la decisione di abortire. Dall’altro, i ricercatori mirano a sfatare il quadro concettuale dell’«aborto come trauma» basato su «credenze paternalistiche, e spesso religiose, sulla “natura” delle donne e sull’apparentemente innato desiderio di maternità» privo di qualunque «supporto rigoroso» scientifico.

ELOGIO DEL SOLLIEVO E DELL’INDIFFERENZA

Per cinque anni, i ricercatori hanno monitorato le emozioni di 667 donne (di diverse razze, età, provenienza e status sociale) in cerca di aborto tra il 2008 e il 2010, in 21 stati americani. E hanno scoperto che al termine di questo periodo di tempo, il 95 per cento di loro ha ritenuto di aver preso la decisione giusta (percentuale che sale al 99 per cento fra chi ne era già convinta dopo la prima settimana post aborto). Non solo il “sollievo” è stato il sentimento più comune a tutte (in una scala da 1 a 4, “sollievo” ha ottenuto un punteggio di 1, “tristezza” o “colpa” di 0,6, “rimpianto”, “rabbia” o “felicità” di 0,4), ma in generale tutte le emozioni cattive riferite a un aborto scemano col passare del tempo fino a sbiadire e diventare “indifferenza”: cinque anni dopo avere abortito, l’84 per cento delle donne intervistate dichiara di provare a riguardo di quell’evento emozioni “positive” o di non provare più alcuna emozione.

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SE LE DONNE SOFFRONO È COLPA DEI PROLIFE

Il passaggio interessante per i ricercatori, che invitano a indagare con inchieste il fenomeno, sta nel rilevare che mentre per il 46 per cento delle donne abortire non è stata una decisione difficile, per il 54 per cento è stato “molto” o “piuttosto” difficile: per la maggioranza di queste donne la difficoltà era dovuta allo “stigma associato all’aborto” percepito all’interno della propria comunità di appartenenza. Ma col passare del tempo la certezza di aver fatto la cosa giusta ha spazzato ogni dubbio. Il biasimo della società imbevuta di retorica antiabortista è per i ricercatori un fattore chiave degli eventuali tormenti delle donne, esposte al rischio di provare emozioni negative (tristezza, senso di colpa e rabbia) quanto più l’aborto è stigmatizzato.

IL PROBLEMA È LO STIGMA, NON L’ABORTO

«Per anni è stata diffusa la teoria per cui dobbiamo proteggere le donne dal danno emotivo di cui molte soffriranno quando subiranno un aborto. Ora sappiamo che non esistono prove a supporto di queste affermazioni», ha spiegato Corinne Rocca, professore presso l’Università della California a San Francisco e autrice principale dello studio dopo averne condotti di simili. Per i ricercatori non solo non ci sarebbero evidenze scientifiche di danni psicologici dovuti alla procedura dell’aborto, ma eventuali traumi sarebbero legati al contesto personale e sociale, dove una sorta di storytelling sull’aborto come procedura invasiva e traumatica per la donna farebbe più danni della procedura stessa. Pertanto ogni discussione e consulenza richiesta dalle normative dovrebbe supportare le donne nel fare fronte allo “stigma” a cui andranno incontro (mica farle riflettere su cosa stiano facendo).

LA DIFESA DI PICCOLE PERCENTUALI (MA SOLO SE IN LINEA CON LA RETORICA PRO-CHOICE)

Ci sono dei limiti, allo studio. Il primo è che solo il 38 per cento delle donne a cui è stato chiesto di partecipare ha acconsentito a farlo. Di quelle che avevano accettato, la metà ha deciso di abbandonare nel corso degli anni. Una percentuale secondo gli autori in linea con altri studi del genere ma comunque una percentuale di rilievo. Restano tuttavia curiose le conclusioni: non sapendo spiegarsi la presenza di donne che contrariamente al trend manifestano comunque rimpianto o emozioni negative («mentre possiamo stabilire associazioni temporali tra le variabili che abbiamo misurato, non siamo in grado di identificare i meccanismi causali reali che portano alcuni individui a provare emozioni negative o rimpianti per la propria decisione»), i ricercatori invitano ad approfondire la possibilità che sia «il dibattito antiabortista», cioè quello di chi sostiene che l’aborto non è una passeggiata e non è privo di conseguenze per la donna, la madre di tutti i problemi delle donne che abortiscono «contribuendo alle emozioni negative di cui parla».

LA MINORANZA CHE OSA RIMPIANGERE UN FIGLIO

E questo per un motivo molto semplice, spiegato altrettanto candidamente da Corinne Rocca: «Questo studio dimostra che c’è una piccola minoranza che rimpiange i propri aborti. Non voglio in alcun modo sminuire il travaglio di queste donne, ma sarebbe un errore limitare la libertà di scelta di tutte in base a questa minoranza». In altre parole insieme al diritto ad abortire dovrebbe essere garantito un diritto alla tranquillità emotiva di abortire e all’oblio di qualunque riflessione sull’aborto o esperienza contraria al mainstream. Nessuna considerazione della possibilità che sia “il fatto”, l’aborto stesso, a determinare eventuali turbamenti. Come spiegare altrimenti la celebrazione dell’“indifferenza” o “assenza di emozioni” conquistata dalle donne riguardo all’uccisione del proprio bambino tra gli argomenti a supporto della libertà di scelta?

Foto Ansa

Tags: Abortoamericainterruzione di gravidanzalibertà di sceltamichelle williamsprolife
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