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La via crucis di Teresio Olivelli

Un volume raccoglie gli scritti e narra la vita del giovane italiano morto a soli ventinove anni in un lager nazista. Un uomo consumato dall'amore per Cristo

Antonella Lumini
24/03/2016 - 17:08
Chiesa
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teresio-olivelli

Articolo tratto dall’Osservatore romano – Ogni anno il tempo forte di Pasqua ci introduce nella settimana santa attraverso i passi della Via crucis. Passi che si ripetono nella sofferenza di tanti uomini e donne, tappe costantemente presenti nella tragedia del mondo. La croce è sempre attuale, per questo chi si apre a Cristo e si predispone verso la verità non può non vederla. Chi la vede non può non patirla con atto di pura compassione. Il dolore che pervade la terra sale da un territorio oscuro tenuto ai margini. Chi si apre a Cristo lo sente perché lo Spirito Santo purificando le anime trapassa i corpi rendendoli sensibili all’amore fino al totale dono di sé.

Ne è modello esemplare per santità di vita e virtù, il venerabile Teresio Olivelli, morto a soli ventinove anni in un lager nazista. In sua memoria, mentre è in corso il processo di beatificazione, è stato recentemente pubblicato a opera di monsignor Paolo Rizzi, il testo di una Via crucis (Via crucis con Teresio Olivelli, Roma, Città del Vaticano, 2016, pagine 20, euro 3) che — attraverso brani tratti dai suoi scritti, testimonianze di chi lo ha conosciuto, passi scritturali e preghiere — permette di ripercorrere le trame del suo calvario esistenziale. Nel suggestivo coro di voci, tassello dopo tassello, la sua vita viene a ricomporsi quasi a calco sul cammino di passione di Gesù.

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Partecipa volontariamente alla campagna di Russia e nella tragica ritirata «mentre tutti fuggono, soccorre i feriti che implorano aiuto». Rientrato in Italia non si arrende ai nazisti ed entra nella resistenza, «le sue armi sono l’amore del prossimo e il sacrificio di sé». Come l’uomo dei dolori attraversa il tempo fendendone le tenebre, addossandosi la sofferenza. Mentre la cecità fa sprofondare il mondo nelle inarrestabili spirali della violenza, il dolore innocente continuamente si riaffaccia sulla storia. «Che male ha fatto (…), ma essi gridavano più forte: “Crocifiggilo!”» (Marco, 15, 13-14).

Il 26 aprile 1944, con un inganno, Olivelli viene arrestato a Milano in piazza San Babila e rinchiuso nel carcere di San Vittore. «Vorrei essere ancora più raccolto; le carceri sono piene di Dio». Perseguitato dai nazisti, viene condotto nei lager di Fossoli, Bolzano, Flossenbürg ed Hersbruck. Nell’orrore del campo si prodiga per i più deboli offrendo anche la sua porzione di cibo: «Ripuliva e lavava le piaghe dei sofferenti e ammalati. Si prestava volontariamente con tutto il cuore per rendere più leggera la nostra permanenza in quell’inferno». Si prendeva cura di coloro «che erano colpiti da scabbia, scorbuto, dissenteria e già ridotti da fare ribrezzo a tutti».

Nella luce dello spirito la realtà appare come olocausto permanente, ma non è abbandonata a se stessa. Con Cristo il dolore non si perde nel nulla, accolto diviene fuoco d’amore. Brucia e consuma il peso della storia che annienterebbe il mondo. Solcando le tracce di luce del Figlio di Dio, l’itinerario di passione del Figlio dell’uomo fuoriesce dal buio: «Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio» (Isaia, 53, 4).

Olivelli guarda in faccia la verità e ne soffre tutto l’orrore, ma la verità nobilita perché supera lo scarto di oscurità che separa dalla luce. Chi sta nella verità è nella luce e la luce nobilita attraverso l’amore. «Dacci la forza dello Spirito, per portare con te la croce della nostra debolezza». Chi ama non calcola, non pensa più a preservare se stesso. Offre la propria vita con il coraggio dell’amore perché solo l’amore dà la spinta interiore che libera dalla paura.

Al contrario, i persecutori dell’uomo odiano la verità perché odiano innanzitutto se stessi. Più muovono azioni violente e distruttive, più si condannano scaricando sulle vittime la loro perversa ferocia. «L’oppressore in vagoni bestiame ammassa uomini e donne, animali da lavoro per le fucine tedesche (…). Ma chi non rispetta in sé e negli altri l’uomo, ha un’anima da schiavo».

Dalla schiavitù dell’odio non c’è via d’uscita, è come un gorgo che conduce sempre più in basso. Solo l’incontro con lo sguardo misericordioso di Gesù può rompere il circuito mortifero della distruzione. In Giuda trionfa l’accusatore, l’avversario della vita. Vince la morte. In Pietro lo sguardo di Gesù muove il pianto, il perdono fa trionfare la vita. Gesù ama con lo sguardo: «Come quel giovane che non seppe seguirti — “fissatolo lo amò” —. Anch’io, coi miei peccati, ho dato mano a flagellarti».

Questo sguardo scioglie le catene, i muri che chiudono. Sgretola l’orrore dello sguardo con cui l’essere umano guarda se stesso e si rifiuta. «Sterile è solo chi si chiude in se stesso sazio e disdegnoso». La conversione richiede innanzitutto di cambiare mente. Di lasciare lo sguardo giudicante del mondo e assumere lo sguardo misericordioso di Gesù che dona il perdono.

Questo sguardo «è un invito all’amore, amore che purifica, che redime». Imprimendosi nell’occhio malato e distorto dell’uomo, lo sana, lo risveglia, lo volge verso la sofferenza. «Gesù Cristo fa olocausto della propria vita per vivificare l’umanità morta, che giace nell’ombra di morte (…). Gesù muta il livore in amore e l’amore verrà crocifisso».

La morte dell’umanità è la cecità, il buio spirituale. Per questo Gesù, e chi a lui si conforma, diviene «segno di contraddizione» che spaventa i detentori dell’inganno. I nazisti odiano e picchiano Olivelli perché con parole di fede e di speranza «indebolisce la loro sistematica azione di annientamento fisico e morale dei prigionieri».

La ferocia che brucia l’umano nell’orrore dei lager fluisce nei fiumi neri dell’odio che ancora tracimano, ma l’antidoto c’è, si è fatto conoscere. La salvezza è costante perché sempre Cristo effonde amore e assume su di sé il dolore. Gesù sempre è appeso alla croce e sempre è risorto. Ugualmente coloro che affidandosi con pura fede lo seguono. «Il Signore non salva noi senza di noi, non salva il mondo senza le persone del mondo».

Il dolore più grande dell’amore che ama non sono le piaghe e il legno cruento, ma il non essere accolto: «L’affronto dell’ingratitudine umana, il flagello dell’odio perverso che lungo i secoli si scaglierà contro di Lui, Amore sostanziale che si sacrifica per le sue creature insensibili al suo amore». Gesù esce dalla scena del mondo come un fallito e un perdente, ma l’amore effuso e sedimentato nell’intimo di coloro che si sono aperti e affidati ha impresso nell’umano la luce rivelativa spalancando le soglie della morte. La vita eterna che emana dal Risorto fluisce attraverso i canali aperti dell’amore.

Teresio Olivelli — la cui figura magrissima e ricurva «richiamava l’immagine di Gesù sul calvario» — conclude la sua vicenda terrena il 17 gennaio 1945 nel lager di Hersbruck a seguito di un gesto estremo in cui offre il proprio corpo come scudo a un giovane prigioniero brutalmente pestato dal kapò.

La via della croce trasfigura la vita umana in manifestazione di resurrezione. Croce e resurrezione sono un atto unico. Sono congiunte fin dal principio perché la vita del verbo incarnato è già in se stessa resurrezione, vita eterna che attraversa la terra. L’innesto della vita umana nell’umanità del Cristo dischiude l’umano in tutti i suoi risvolti luminosi e tenebrosi. Il verbo incarnato, morto e risorto effonde luce assumendo su di sé il peso della storia. Amore sublime e assoluto senza più veli che abbraccia tutto. La croce non è segno di mortificazione ma di vivificazione della morte. È spaventosa, ma ancora di più è sublime, segno dell’amore che scaturisce dalla vita risorta, dalla presenza del divino nell’umano. Non si può accogliere la croce se non attraverso la resurrezione, attraverso l’innesto nella vita eterna che è la vita del Cristo in noi già qui sulla terra.

Tags: campo di concentramentolagernazistiTeresio Olivelli
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