LA VERITA’ SULLA CATTOLICA

Di Luigi Amicone
31 Marzo 2005
RICOSTRUZIONE MOLTO LACUNOSA DEGLI ANNI DI LAZZATI RETTORE IN UN ARTICOLO DI MELLONI. CL FECE BEN ALTRO CHE CONTRASTARLO, SPIEGA L'ANTICHISTA MARTA SORDI

Con una sensibilità molto spiccata per il dibattito interno al mondo cattolico che marcia a file compatte verso l’astensione al referendum sulla legge 40, il Corriere della Sera (la cui direzione ha schierato il giornale per il “sì”) ha di nuovo ospitato, dandone grande risalto, un altro intervento di Alberto Melloni, discusso intellettuale cattolico che proprio dalle colonne del quotidiano milanese aveva recentemente sollevato pesanti accuse di antisemitismo contro Pio XII, accuse poi smentite dai documenti storici. Questa volta la lunga articolessa di Melloni (l’intera pagina della sezione “Cultura”, lunedì 21 marzo) è dedicata alla recensione di una biografia di Giuseppe Lazzati, rettore dell’Università Cattolica tra il 1968 e il 1983, autori Marcello Malpensa e Alessandro Parola, pubblicata dal Mulino di Bologna.
I fatti rilevanti di cui dà conto l’articolo di Melloni sono sostanzialmente tre.
1. La testimonianza dell’allora monsignore Francesco Marchisano, secondo il quale nel 1975 la Chiesa voleva chiudere l’Università Cattolica («L’ipotesi fu avanzata da monsignor Giovanni Benelli, collaboratore di Paolo VI, ma il rettore Giuseppe Lazzati difese con grande dignità la Cattolica e l’idea fu accantonata»).
2. Il profilo di Giuseppe Lazzati, che fu politico e capogruppo democristiano alla Camera, poi direttore del quotidiano della Conferenza episcopale italiana, infine rettore dell’Università Cattolica, ma anche «vigile nelle derive di carrierismo che angustiano padre Agostino Gemelli negli anni Trenta» e «figura di cristiano ambrosiano d’una purezza intellettuale e personale tale da disarmare chi avesse sognato di ricattarlo in nome della ragion di Stato o della ragion cattolica». Insomma «un credente emblema del Novecento italiano», ma fondamentalmente incompreso, vessato dalle autorità della Chiesa e da almeno due papi (Paolo VI e Giovanni Paolo II) anche a causa, sostiene Melloni, del «credito che hanno presso il Papa i suoi detrattori, quelli che, allora e in seguito, ameranno schernirlo come un “neoprotestante” (con grande sdegno nel 1988 di Ciriaco De Mita.)».
3. La distanza fra Lazzati e Comunione e Liberazione, che secondo Melloni «diventa rottura totale in occasione del referendum sul divorzio» nel 1974, «rottura» che avrebbe in qualche modo favorito l’emergere dell’ipotesi di chiusura della Cattolica.

LA LETTERA AL CORRIERE
Sul primo punto, Melloni e gli autori della biografia lazzatiana hanno dovuto incassare il notevole e inedito documento (gli appunti dello scomparso cardinale Ferdinando Antonelli) pubblicato dal Foglio nell’edizione del 22 marzo scorso. Documento in cui si dimostra che in realtà Paolo VI voleva chiudere la Cattolica ben prima del 1975, già nel 1968 e a seguito delle violente contestazioni che avevano paralizzato la vita accademica e costretto alle dimissioni il rettore Ezio Franceschini. Tempi ha però scoperto altri fatti che fanno vacillare le tesi e le ricostruzioni storiche esposte nell’articolo di Melloni.
Ad esempio una denuncia risalente a cinque giorni prima che si svolgesse il referendum sul divorzio, pubblicata il 7 maggio 1974 nelle rubrica delle lettere del Corriere della Sera (diretto all’epoca da Piero Ottone, tanto per intenderci è il Corriere della Sera che si distingue per il fiancheggiamento al Pci e che di lì a un mese verrà abbandonato da Indro Montanelli, che nel giugno del ’74 fonda Il Giornale) nella quale un folto gruppo di illustri professori della Cattolica testimonia del clima di violenza e di intimidazione che erano stati imposti nella loro università durante la campagna referendaria da una minoranza di studenti usati dai partiti politici (in questo caso dal Psi prima dell’avvento di Bettino Craxi). La lettera venne pubblicata sotto un titolo molto asettico (“Dibattito sospeso alla Cattolica”) e da essa emerge in tutta evidenza che il problema del rettore Giuseppe Lazzati non poteva essere in alcun modo la presunta “rottura totale” con Comunione e Liberazione, ma ben altro (vedi testo della lettera nel box in pagina).
Dunque la Cattolica al tempo del referendum sul divorzio ribolliva di intolleranza, però Melloni nel suo articolo non lo spiega. Anzi. Sostiene che fin dall’inizio del suo mandato di rettore, Lazzati era stato stretto in una morsa in cui da una parte c’è “l’effervescenza” di pacifici sessantottini dediti allo svecchiamento con “scosse intellettuali” di quell’antichità reazionaria che si insinua fosse la Cattolica all’epoca della contestazione. Dall’altra ci sono quei pessimi ciellini fonte di grave ambascia e amarezza per il povero Lazzati. «Da un lato lo stringe l’effervescenza di un ambiente statutariamente confessionale e piccolo – scrive per l’appunto Melloni a proposito di Lazzati – ma che proprio per questo freme delle scosse intellettuali e politiche del tempo: nell’apice della contestazione il rettore (con o contro la parte ecclesiastica) deve gestire casi difficili di professori estromessi: da Franco Cordero a Emanuele Severino, da Francesco Alberoni a Franco Molinari, per non dire degli assistenti inquieti, fra i quali si contano Tiziano Treu, Gian Enrico Rusconi, Mario Cuminetti, Cesare Alzati, Salvatore Natoli, Lidia Menapace. Dall’altro lato, però, Lazzati è pressato dal militantismo dei ragazzi di don Luigi Giussani» che, sempre a detta di Melloni, nel 1974 «diventa rottura totale in occasione del referendum sul divorzio». Buona la poesia pindarica, ma purtroppo per lo storico, anche in questo caso per niente aderente ai fatti.

ALZATI, CORDERO, SEVERINO
Altre stranezze. Che ci fa ad esempio il professore Cesare Alzati nella lista degli “inquieti” gauchisti citati da Melloni, quando è evidente dalla lettera che il professor Alzati stava dalla parte opposta a quella dei contestatori? Che c’entra poi il caso di Franco Cordero con quello, diversissimo, di Emanuele Severino, visto che all’epoca il primo si appellò ai tribunali, ottenne il reintegro in Cattolica e mantenne per qualche anno lo stipendio pur senza insegnare, mentre il secondo consumò un franco e leale distacco dal pensiero cattolico e fu lui stesso a decidere di trasferirsi armi e bagagli in una università laica? E poi, perché Melloni mescola allegramente gli “assistenti inquieti” senza spiegare che l’elenco comprende “assistenti” nel vero senso del termine, come Lidia Menapace o Gian Enrico Rusconi, cioè legati a cattedre di insegnamento, e “assistenti spirituali”, cioè sacerdoti, preti del dissenso, come Mario Cuminetti, che sono tutt’altra cosa?

LA LEZIONE DI TUCIDIDE
Uno dei pochi firmatari ancora viventi di quella lettera al Corriere della Sera è la professoressa Marta Sordi, insigne storica che negli anni Sessanta e Settanta fu molto attiva nelle organizzazioni di Azione Cattolica, della Fuci e dei Laureati Cattolici, e che per trent’anni, dal 1970 al 2001, è stata titolare delle cattedre di Storia romana e Storia greca alla Cattolica. «Arrivai in Cattolica già nel 1969 come supplente sulla cattedra di cui era titolare il professore Albino Garzetti, che era rimasto vittima di una duplice e vile aggressione da parte dei contestatori, proprio lui ufficiale dell’esercito italiano che aveva pagato con la deportazione in Germania il rifiuto di passare nell’esercito repubblichino di Salò. Già allora avevo ben chiara la lezione di Tucidide sul crollo della democrazia ateniese, avvenuta nel 411 ad opera di cittadini associati nelle eterie, club segreti, minoritari ma ben organizzati rispetto alla maggioranza dei cittadini che erano isolati l’uno dall’altro diversamente da questa base aggressiva, coesa e militante, che faceva sparire alla chetichella gli oppositori e infine, grazie al clima di paura che aveva imposto in Atene, ottenne l’abbattimento della democrazia col voto dell’assemblea. Non ho mai saputo niente delle ipotesi di chiusura della Cattolica, ma mi pare che il documento citato dal Foglio sia molto significativo. Fu nel 1968 e negli anni immediatamente successivi che la Cattolica dovette rischiare la chiusura a causa del clima di violenza e sopraffazione imposto da una minoranza politicizzata che godeva della protezione e della copertura di partiti politici della sinistra. Ma nel 1975, dopo l’espulsione di Capanna e soci, che fu un indubbio merito di Lazzati, e grazie alla presenza di Cl che ridette voce agli studenti liberi, la situazione si era pressoché normalizzata. In quell’anno, ma già prima, la Cattolica ritornò ad essere una università libera. Tant’è, dicevo spesso agli ecclesiastici che ci facevano visita in Largo Gemelli, che potevano finalmente stare tranquilli, perché la presenza massiccia di Cl aveva ripristinato la vita democratica in università e rappresentava una garanzia, dopo l’intolleranza esercitata da gruppuscoli minoritari, di una ritrovata libertà di espressione politica e didattica in ateneo. Insomma, Cl contribuì validamente a rimettere le cose a posto».

LAZZATI CONTRO COTTA
Melloni però sostiene che il referendum sul divorzio marcò l’apice della divergenza tra don Giussani e Lazzati. «Non mi risulta. L’ostilità profonda di Lazzati nei confronti di Cl emerse, a me sembra, solo sul finire degli anni Settanta. Di quella primavera referendaria del 1974 ricordo invece molto bene che pochi giorni prima i nostri studenti in assemblea avevano condannato l’intolleranza che impediva di parlare ai cattolici favorevoli all’abrogazione. E proprio per questo era stato invitato Sergio Cotta per spiegare la posizione del “sì” all’abolizione del divorzio. Io e i colleghi che poi sottoscrissero quella lettera al Corriere della Sera eravamo quel giorno in Cattolica. Ricordo gli studenti esterni all’università, per esempio i liceali del Manzoni, che erano stati mobilitati dalla sinistra. A uno di questi domandammo: “Cosa sei venuto a fare in Cattolica?”. E quello rispose: “A contestare quel fascista di Fanfani”. Ricordo che poi il rettore Lazzati impedì a Cotta di parlare, anche se Cotta si era detto disponibile a intervenire e ad affrontare la polemica con i contestatori». Vuole dire che fu Lazzati, non le ragioni di ordine pubblico, a impedire l’incontro antidivorzista in Cattolica? «No, voglio dire che il clima era chiaramente intimidatorio e che Lazzati agì probabilmente per prudenza, ma Cotta era pronto ad affrontare l’aula vociante. E dunque la decisione del rettore mi parve frutto di un eccesso di prudenza». Però nella vostra lettera al Corriere non c’è traccia di questa vostra sensazione. «Naturalmente. La lettera aveva un altro scopo. Mirava a denunciare la pressione antidemocratica che era stata esercitata contro Cotta e le complicità di certi partiti con i contestatori. D’altra parte non dimentico che in Cattolica furono ammessi ben due interventi pro-divorzio e neppure uno contro. Mentre in università statale persino Gabrio Lombardi, promotore del referendum antidivorzista, potè parlare». Vuole dire che Lazzati era un fiancheggiatore del fronte divorzista? «Certamente no e, ovviamente, non so cosa abbia votato Lazzati, un uomo sicuramente di grande fede e di grandi virtù, ma che era un uomo di parte e aveva anche una concezione della laicità forse un po’ troppo esasperata». In che senso, “esasperata”? «Nel senso che se un cattolico ritiene che laicità significa che io non faccio una certa cosa, però non devo far pesare col mio voto questa mia scelta sul piano dell’agone civile per non rischiare di conculcare la libertà altrui, ciò in realtà comporta un altro e più serio rischio, quello di abdicare alla libertà e ai diritti assegnati ad ogni cittadino dalla democrazia».

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