“Andai al comunismo come si va a una sorgente di acqua fresca, e lasciai il comunismo come si annaspa per uscire da un fiume avvelenato e cosparso delle rovine di città inondate e dei cadaveri degli annegati”. Così, Arthur Koestler definisce il dna del comunismo: la menzogna.
Falsa libertà, vera schiavitù
Gridare “al fuoco! al fuoco!” non equivale a possedere gli strumenti giusti per spegnerlo. Si pensi, ad esempio, all’atroce uso propagandistico del sintagma “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, atto d’accusa questo di grande effetto e, perciò, carissimo ai comunisti. Eppure, nessun sistema economico-politico moderno più di quello comunista (ieri, in Urss e nell’Europa dell’Est; oggi, a Cuba, nella Corea del Nord, in Vietnam o in Cina) ha mai portato lo sfruttamento dell’uomo a livelli così prossimi alla schiavitù. Anzi, a livelli ulteriori e peggiori, visto che nel Gulag — l’habitat concentrazionario dove fu sperimentata la riedizione novecentesca della schiavitù — i negrieri “rossi” non si curavano di reintegrare la forza-lavoro con alimenti e assistenza adeguati, lasciando morire le persone, spremute come limoni, di inedia, di freddo e di stenti. Che cosa ci può essere di più tragicamente bugiardo del gridare allo “sfruttamento”, per sostituirlo, poi, con la peggiore schiavitù possibile? Tale paradosso, insieme ad altre mille efferate incongruenze, insegna quanto il comunismo possa essere battuto dalla semplice verità. Nulla è più negativo per i Cossutta, i Mussi, i D’Alema (e quant’altri comunisti, ex comunisti, rifondatoristi, socialcomunisti, postcattocomunisti siano ancora qui, impudenti e saccenti, a pontificare, essendo stati graziati dalla mancata Norimberga politico-culturale su di loro), quanto l’oscuro lavoro di ricerca negli archivi. La verità sta all’Armando come la kryptonite a Superman: lo debilita, talora lo denuda, tal’altra lo ridicolizza, sempre lo distrugge. Ciò per confessare che non è stato l’odio a farmi raccontare le terribili vicende esistenziali dei giovani antifascisti assassinati in Urss. L’anticomunismo micidiale più che viscerale appartiene e va lasciato tutto a coloro che hanno fatto strage di comunisti, cioè ai comunisti stessi, a tal punto affetti dalla sindrome di Caino, da farsi inquisitori e carnefici dei loro compagni, dei loro amici, dei loro familiari. Il simbolo incarnato di questa incoercibile pulsione fratricida è un ragazzino, tale Pavlik Morozov, eletto esempio di moralità comunista, per aver fatto fucilare il proprio padre. Non anticomunismo, dunque.
Perché viva la memoria
La vera molla del mio La tragedia dei comunisti italiani è l’amore, l’amore per la verità storica, l’amore in forma di partecipazione emotiva verso quei giovani sacrificati. Verità storica ed amore, intanto, per rendere finalmente giustizia a chi, senza sua colpa, ha dovuto morire tre volte: la prima atroce morte interiore, nello scoprire di aver creduto ad un idolo falso e bugiardo, tanto da essere denunciati non dagli avversari, ma dai dirigenti del proprio partito, il partito comunista d’Italia; la seconda morte, per mano delle “toghe rosse” e dei carnefici; la terza, forse la più insoffribile, quella di venir subito cancellati dal ricordo e dalla memoria, come feti mai nati, bambini barbaramente abortiti, senza un nome, senza un volto. L’obbiettivo di uno studioso non può che limitarsi a raccogliere con rigore scientifico e presentare, con humanitas e pietas, le sue scoperte d’archivio ai lettori. Tuttavia, nel caso del mio libro, mi aspetto qualcosa di più. In primo luogo che i nomi di questi ragazzi siano finalmente ricordati in tutti i modi più degni con i quali si onorano i defunti, ovvero con il mistero degli amorosi sensi tra vivi e morti. Mi aspetto che gli italiani in visita a Mosca portino finalmente un fiore e un attimo di commozione a Butovo, dove sono disperse le ossa di decine di nostri connazionali. Butovo è un luogo simbolico, sola una delle tante, troppe fosse comuni che la “civiltà” comunista ha voluto tramandare ai posteri. Ebbene, gli italiani lì sotterrati non sono soltanto i giovani che, negli anni Venti e Trenta, accorsero in Urss a portare la loro “piccola pietra” alla costruzione del socialismo reale. Ci sono anche migliaia di italiani, già residenti in territorio sovietico, specie in Crimea e soprattutto nella città di Kerc, divenuta dal XVIII secolo una colonia pugliese, capace di tramandare per generazioni e generazioni gli antichi dialetti di Bisceglie e di Trani, usi, costumi, fede cattolica, sin quando, sul finire degli anni Trenta, la furia comunista non l’annientò. E vi sono i resti di circa cinquantamila italiani prigionieri di guerra, in gran parte fatti morire dalla disumanità e dal rigore bestiale dei carcerieri comunisti. E‚ il momento, dunque, della civiltà della memoria. Ricordare servirà, fra l’altro, ad affrontare le altre infingarde facce — il laicismo — della mai vinta cultura di morte.
di Giancarlo Lehner