

Pare scongiurata per il momento la terza campagna militare turca nel giro di quattro anni nella Siria settentrionale: dopo settimane di minacce da parte del presidente Erdogan e di altre alte cariche dello Stato politiche e militari, mercoledì scorso 7 agosto Turchia e Stati Uniti hanno deciso la creazione di un Centro operativo congiunto di esponenti dei due paesi per gestire le tensioni fra turchi e miliziani curdo-arabi delle Fds (Forze democratiche siriane) lungo i 450 chilometri del confine turco-siriano e per preparare l’istituzione di una fascia di sicurezza smilitarizzata all’interno del territorio siriano lungo tutto il confine con la Turchia.
A partire dall’8 luglio scorso le forze armate turche avevano ammassato uomini e mezzi in due punti della frontiera, corrispondenti alle località siriane di Tel Abyad e Ras al-Ayn, che si trovano sotto il controllo delle Fds. A partire dal 22 luglio il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu e il presidente Erdogan hanno ammonito a più riprese che la Turchia avrebbe rotto gli indugi e ordinato alle truppe di passare all’attacco se gli Usa e i loro alleati non avessero accolto la richiesta della creazione di una fascia di sicurezza della larghezza di almeno 30 chilometri all’interno del territorio siriano lungo tutta la frontiera settentrionale fra Siria e Turchia, affidata all’esclusivo controllo delle forze turche. Ankara si sente minacciata dalle Ypg (Unità di protezione popolare), che considera una “organizzazione terroristica” e che di fatto sono la spina dorsale delle Fds e dell’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale che dal 2012 sotto vari nomi incarna l’egemonia politico-amministrativa dei curdi su 50 mila chilometri quadrati di territori siriani ribattezzati col nome di Rojava. Le Ypg rappresentano l’ala militare del Pyd, Partito dell’Unione democratica che i turchi considerano la gemmazione siriana del Pkk turco, il partito armato indipendentista curdo di Turchia, che dal 1978 lotta con le armi per la creazione di un Kurdistan indipendente nell’attuale sud-est della Turchia.
Oltre che dalle Fds, le richieste turche sono respinte dall’amministrazione Usa, che è favorevole alla creazione della fascia di sicurezza, ma molto meno larga di quanto richiesto da Ankara (non dovrebbero essere più di 15 chilometri) e non affidata esclusivamente al controllo delle forze di sicurezza turche. Per le Fds-Ypg la fascia di sicurezza non può essere larga più di 5 chilometri e deve prevedere la partecipazione delle loro forze alle operazioni di controllo e mantenimento dell’ordine. Va notato che lungo la frontiera turco-siriana, adiacenti al confine, sono collocate una serie di cittadine che contano decine di migliaia di abitanti come Kobane, Tel Abyad e Ras al Ayn, e Qamishli che prima della guerra contava 184 mila abitanti e dove si trovano i principali uffici dell’Amministrazione autonoma istituita dai curdi.
Pur disponendo soltanto di mille uomini circa sul terreno dopo l’ordine presidenziale di Donald Trump che nel dicembre scorso ha disposto il ritiro quasi completo delle truppe americane presenti nella Siria del nord-est, gli Stati Uniti hanno ribadito che non accetteranno iniziative militari unilaterali turche, al punto che il nuovo segretario di Stato alla Difesa Mark Esper ha dichiarato: «Ciò che faremo è impedire delle incursioni unilaterali che sarebbero contrarie agli interessi che condividiamo». Il dissidio turco-americano è solo l’ultima di una serie di frizioni culminate nell’acquisto da parte della Turchia, che formalmente fa parte della Nato, di missili russi S-400.
Gli americani sembrano però non avere obiezioni rispetto a uno degli obiettivi che i turchi si prefiggono di realizzare nel contesto della creazione della fascia di sicurezza: il trasferimento in tale territorio della maggior parte dei 3,6 milioni di profughi siriani che attualmente soggiornano in Turchia, e che Ankara da alcuni mesi sta vessando in molti modi, anche deportando forzosamente centinaia di essi in territorio siriano nella provincia sotto controllo ribelle dell’Idlib, dove sono presenti 12 “punti di osservazione” dell’esercito turco, istituiti in base agli accordi di Astana fra Turchia, Russia e Iran per una de-escalation militare nell’area. In realtà l’Idlib è la regione della Siria dove più intensamente ancora si combatte, a causa della presenza di 40 mila ribelli che da lì lanciano missili contro i governatorati di Aleppo, Latakia e Hama sotto controllo dei governativi di Damasco. I bombardamenti russo-siriani contro i ribelli, fra i quali primeggiano gli eredi degli alqaedisti di Jabhat al Nusra, che oggi si chiama Hayat Tahrir al-Sham, causano vittime fra la popolazione civile composta di residenti locali e rifugiati da altre regioni siriane e hanno ispirato la lettera-appello di papa Francesco al presidente Assad nella quale il pontefice ha espresso la sua preoccupazione per le sofferenze della popolazione non combattente.
Per la Turchia il trasferimento di centinaia di migliaia di profughi siriani arabi e sunniti lungo la fascia di confine turco-siriana avrebbe un’importanza strategica, in quanto diluirebbe la maggioranza etnica curda che attualmente caratterizza questo territorio di frontiera. Per allontanare le forze dell’Ypg dalle proprie frontiere la Turchia ha già condotto due campagne militari in territorio siriano nel 2016-17 (Operazione Scudo dell’Eufrate) e nel 2018 (Operazione Ramo d’Ulivo), che si sono concluse la prima con l’occupazione della città di Jarabulus e la seconda con l’occupazione della quasi totalità del cantone di Afrin. Nelle due operazioni l’esercito turco ha perduto rispettivamente 71 e 58 soldati. Gli esponenti dell’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale avvertono che una terza campagna militare turca nel nord siriano è solo rimandata, e hanno fatto appello al governo di Damasco per un accordo che permetta di difendere il territorio siriano a maggioranza curda da un’invasione turca.
Foto Ansa
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