
La Spagna affonda e l’Unione Europea sta a guardare
Corrispondenza da Madrid. Barcellona, 11 settembre 2012. Si celebra la Diada, la festa ufficiale della Catalogna, nella quale si commemora la presa di Barcellona nell’anno 1714 – durante la Guerra di successione spagnola – da parte delle truppe borboniche comandate dal duca di Berwick, e con essa l’abolizione delle leggi e delle istituzioni proprie della Corona di Aragona, a cui apparteneva questo territorio. Tutti gli anni la Catalogna ricorda questo giorno con una esaltazione patriottica piena di rivendicazioni nazionaliste. Ma quello che è accaduto quest’anno è andato molto, molto più lontano.
Si prevedeva che avrebbe partecipato più gente del solito, ma la realtà ha superato ogni aspettativa. Si è trattato di un’adunata storica, che ha occupato più di tre chilometri delle arterie centrali della capitale catalana. Alla testa della manifestazione c’era uno striscione che non lasciava spazio a dubbi: «Catalogna, nuovo Stato d’Europa». Al di là della guerra delle cifre sul numero dei partecipanti – fra i 600 mila e il milione e mezzo di persone – la verità è che, per la prima volta dalla fine del franchismo, un grandissimo numero di catalani ha chiesto apertamente scendendo in strada l’indipendenza dalla Spagna. Il giorno seguente, il presidente della Generalitat catalana, Artur Mas, ha fatto sua la causa della manifestazione e si è presentato davanti ai media per dire, con un discorso nuovo, che la Catalogna «ha bisogno di uno Stato proprio».
Quali motivi hanno fatto sì che centinaia di migliaia di catalani si siano riversati nelle strade per chiedere l’indipendenza in uno dei momenti più difficili che la Spagna sta attraversando negli ultimi anni? Questa è la domanda che si sono fatti molti spagnoli all’indomani dell’avvenimento. Perché non va dimenticata la congiuntura in cui si trova la Spagna: sul punto di chiedere un salvataggio finanziario, in cammino verso i 6 milioni di disoccupati, con uno spread sui titoli di Stato tedeschi che non scende sotto i 400 punti base, bersaglio designato di tutti i mercati. E a tutto questo si aggiunge l’entrata in vigore di un duro pacchetto di riforme e di tagli: aumento delle imposte dirette e indirette, introduzione di nuove tasse, una dura riforma del mercato del lavoro, diminuzione dei salari della funzione pubblica, eliminazione degli sgravi fiscali, eccetera. Perché emerge proprio ora con tanta intensità il problema catalano? Non sarebbe più importante adesso offrire una immagine di unità per evitare un’ulteriore punizione da parte dei mercati?
Sull’orlo della bancarotta
Il punto focale della crisi va situato nell’economia. La Catalogna è attualmente la Comunità più indebitata di Spagna, con un debito che supera i 42 miliardi di euro. Per far fronte alle scadenze di pagamento, la Generalitat ha chiesto 5.023 milioni al Fondo di liquidità delle autonomie istituito dal governo spagnolo per aiutare le Comunità autonome. Questo è avvenuto dopo che l’esecutivo di Artur Mas ha messo in atto una politica di forti tagli concentrati nella sanità e nell’educazione, con misure molto discusse come riduzioni degli stipendi dei funzionari.
Il fatto che una delle Comunità più ricche di Spagna sia sull’orlo della bancarotta ha varie spiegazioni, fra cui la cattiva gestione del precedente governo, guidato dal Partito socialista di Catalogna, che ha fatto esplodere il debito nei suoi otto anni di governo. Però molti catalani, anche riconoscendo questo spreco, danno la colpa dello squilibro dei conti al sistema di finanziamento delle autonomie in vigore in Spagna. Grosso modo, lo Stato spagnolo incassa una determinata quantità di denaro in ogni Comunità in funzione dei redditi, e poi la ripartisce fra tutte le regioni in virtù delle loro necessità specifiche. Si crea così una forma di “solidarietà interterritoriale” che fa sì che alcune Comunità apportino allo Stato più di quello che ricevono in investimenti. Con questo sistema, secondo il governo catalano, la Catalogna risulta sempre svantaggiata. Il “deficit fiscale” che soffre questa regione presuppone un contributo alle entrate dello Stato molto superiore a quanto esso spende in Catalogna. Per la precisione, dicono, i catalani stanno contribuendo al 19,5 per cento delle entrate dell’amministrazione centrale della Previdenza sociale, mentre ricevono solo il 14 per cento di tutte le risorse. La cosa sicura è che molti catalani hanno creduto a questo discorso vittimista e in epoca di crisi si sono uniti all’appello indipendentista.
Lo scontro con Rajoy
Sull’onda di questo malessere per il deficit fiscale, l’attuale partito di governo in Catalogna, Convergència i Unió, si presentò alle passate elezioni con una proposta di patto fiscale con cui questo territorio vuole raccogliere e gestire tutti i tributi in proprio, mediante un’Agenzia tributaria propria, per poi compensare lo Stato spagnolo per i servizi che questo presta.
Una settimana dopo la Diada dell’11 settembre, Artur Mas è andato alla Moncloa col suo patto fiscale sotto il braccio. Lì si è incontrato con un Mariano Rajoy, dialogante ma duro: il capo del governo non crede nel patto fiscale e non ha margini per renderlo effettivo. Non ci sono risorse per affrontare un cambiamento nel sistema di finanziamento delle autonomie coi costi che questo implicherebbe, quando quasi non ci sono soldi per pagare i servizi di base. Poco dopo quell’incontro, Artur Mas ha annunciato elezioni anticipate per il 25 novembre, due anni prima del previsto. Il suo partito si presenterà con un programma che include l’obiettivo di convertire la Catalogna in un nuovo stato europeo.
Tutta questa successione di avvenimenti solleva molti interrogativi. In primo luogo in Spagna, poiché la Costituzione spagnola non ammette questa possibilità. In secondo luogo nella Unione Europea, dal momento che il Trattato europeo non contempla la secessione unilaterale di un territorio da uno Stato membro. La Catalogna continuerebbe a far parte dell’Unione? E da ultimo anche in Catalogna. Secondo quanto ha dichiarato a El País Juan José Rubio, docente di Finanza pubblica, «la Catalogna non avrebbe la capacità di generare risorse sufficienti per farsi carico degli stipendi pubblici per almeno uno o due anni, e non potrebbe evitare l’insolvenza se non facendo ricorso a un salvataggio finanziario, ma dovrebbe rivolgersi fuori dalla Spagna e sarebbe difficile».
Tuttavia centrare il dibattito catalano sul mero fatto economico o sulle possibilità di sopravvivenza del nuovo stato, sarebbe riduttivo. José Álvarez Junco, docente di Storia dell’Università Complutense di Madrid, affrontava in un’intervista radiofonica alla Cadena Ser una questione fondamentale: il ruolo che svolge l’Unione Europea in questa faccenda. Che cosa sta succedendo? Perché in un momento in cui il ruolo degli stati-nazione è sempre più ridotto e si tende a strutture più ampie come è il caso dell’Unione Europea, i nazionalismi sono in auge? La crisi economica ha fatto sì che buona parte della popolazione spagnola cessi di vedere nell’Europa un progetto desiderabile e la identifichi come un insieme di burocrati che le ha strappato la sovranità e, con essa, la democrazia, e che vuole decidere il futuro delle loro vite.
Cosa c’è in gioco
È innegabile che la questione catalana e il dibattito sulla forma di Stato sono sorti nel momento peggiore. È scoppiata fra le mani a Rajoy nel momento in cui sta negoziando coi partner europei un salvataggio da cui dipende il futuro del paese. Come se non bastasse, il principale partito di opposizione, il Psoe, si è aggiunto a questa polemica avanzando una proposta per introdurre in Spagna un modello federale, proprio quando mancano poche settimane alle elezioni – il prossimo 21 ottobre – in due comunità autonome con forte presenza nazionalista, la Galizia e i Paesi Baschi.
Precisamente, nel paese basco (storicamente l’anello debole dell’unità spagnola) Bildu, un partito apertamente indipendentista e con membri collegati alla banda terrorista dell’Eta, ha la possibilità di vincere le elezioni, o per lo meno di ottenere dei risultati straordinari. Fino a questo momento, il Partito nazionalista basco (Pnv), – più moderato, tradizionalmente maggioritario e probabilmente quello che sarà più votato – si è mostrato cauto al momento di parlare di indipendenza, forse a motivo di una strategia elettorale per tornare al governo. Non c’è invece alcun dubbio che il Partito socialista basco al governo della regione ha le ore contate, dal momento che i partiti nazionalisti cresceranno notevolmente.
Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare che i terroristi dell’Eta hanno proclamato una tregua e sono molto indeboliti, ma la minaccia della violenza non è finita, almeno definitivamente. È pertanto una grossa novità che il cosiddetto “problema basco” preoccupi ora molto meno che la possibile frattura che potrebbe causare la perdita di una regione storicamente meno problematica per la Spagna, come è stata la Catalogna.
Nessuno può prevedere cosa succederà nei prossimi mesi, ma è chiaro che questa crisi economica produrrà una trasformazione sociale in Spagna molto profonda. Così come gli spagnoli non possono banalizzare quello che succede in Catalogna e ridurlo a una questione monetaria, l’Unione Europea non dovrebbe trascurare tutti questi avvenimenti che si stanno producendo in Spagna. È in gioco molto più che la disintegrazione di uno Stato. Il crollo di questo paese metterebbe in dubbio in tutto il mondo ciò che l’Europa ha rappresentato fino a oggi: un modo di intendere la società che affonda le sue radici nell’eredità greco-romana e nell’umanesimo cristiano e che ha configurato il divenire della nostra storia comune.
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