La scomparsa del segno di contraddizione

Di Giuliano Ferrara
16 Maggio 2017
Per chi sia fuori le mura della Chiesa, assorbito dall’impotente solitudine del laico, la sensazione è quella di un impoverimento

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – I gesuiti hanno scoperto la libertà in parallelo con Lutero, cinquecento anni fa. Lutero l’assoggettò alla fede e alla scrittura, nonché all’autorità dei principi, ma la sua gerarchia teologica attribuì al soggetto umano, ai piedi della croce, un primato moderno che è arrivato fino a noi; i gesuiti coltivarono l’educazione, si presero nelle loro scuole i canoni del mondo classico, li sistemarono nell’enciclopedia di san Tommaso d’Acquino con le radicali correzioni dell’occamismo, e fecero uscire la Chiesa fuori di sé nella missione, l’universalismo come inculturazione o come un dolce e scandaloso multiculturalismo pellegrino, che è il caso del vero maestro del primo Papa gesuita della storia, san Pietro Favre, compagno di Ignazio e primo prete della Compagnia.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]È stato il loro modo di celebrare il Cristo della gloria e della storia. Sconfitti i giansenisti e il loro intimismo fideista e severo, superato il dramma dello scioglimento della Compagnia dopo una stagione di vero potere tra assolutismo e monarchie nazionali, nell’Ottocento temporalista e borghese-massonico fecero onore al voto papista, si fecero perdonare ogni precedente licenza e difesero l’ortodossia con le unghie e coi denti, poi hanno fronteggiato la trasformazione del mondo nel senso della democrazia moderna sotto le insegne della giustizia sociale, del dialogo con il mondo oltre ogni possibile barriera, fino a Francesco.

Sono notoriamente misteriosi e nessuno ha mai davvero saputo che cosa pensino, perché non si autorizzano in realtà a pensare secondo l’ordine logico terreno o come i benedettini e i francescani secondo la regola, i loro esercizi sono un filtro dell’anima e una modalità di comportamento affidata a un ambivalente sentimento della cosa. Sono una élite capace di splendore, di natura autoritaria e intrigante, e se sono arrivati a prendersi il papato, con una spettacolare inversione del loro dogma della fedeltà al soglio e dell’obbedienza perinde ac cadaver, vuol dire che hanno visto qualcosa di apocalittico, di rivelatore, nella secolarizzazione al suo stadio in certo senso definitivo, decidendo di domare con i loro possenti mezzi morali e scientifici, e con la loro casuistica fatta di discrezione e misura relativista, l’inquietudine individualista dell’uomo europeo, che della religione secolare è stato ed è il centro.

Come stia andando l’impresa di recuperare due secoli di ritardo nella storia della Chiesa, secondo la famosa diagnosi di Carlo Maria Martini, è troppo presto per dirlo. La renuntiatio di Benedetto XVI gli ha aperto la strada, ma è un’arrampicata tutta in ripida salita, esposta all’equivoco che divide. Siamo sempre lì. I gesuiti risolvono pressocché ogni cosa tranne il rapporto di adeguamento tra fini e mezzi. Oggi pensano che la pastoralità supera dottrina e teologia, e rifiutano la sapienza istintiva del grande polacco e del Papa bavarese, che portarono a vette teologiche e politiche l’idea secondo cui chi pecora si fa il lupo se lo mangia.L’istinto dice loro che per addomesticare l’individualismo anonimo e la ricerca della felicità la storia della salvezza va percorsa nella assimilazione della Chiesa al mondo dell’autonomia del soggetto.

Il percorso è accidentato e il ritorno all’evangelismo e alle fonti originarie della patristica a volte sembrano una risorsa incapace anche solo di vedere il traguardo della santificazione dell’esistente, così espongono la barca a ogni vento di dottrina, all’Io e alle sue voglie, come diceva Ratzinger sulla soglia del suo papato.

Il trionfo dell’immanenza
Per chi sia fuori le mura della Chiesa, assorbito dall’impotente solitudine del laico, la sensazione è quella di un impoverimento, di una scomparsa della contraddizione, il rischio percepito è quello di una Chiesa che esce da sé stessa solo per confermare il trionfo dell’immanenza, privando il tempo che segue la costruzione moderna, il post di tutto di cui siamo fatti, di un correttivo memoriale, di un’etica assolutista che pure ha avuto un aspetto luminoso e persuasivo, nonostante le gioie dell’Illuminismo. Vedremo.

Per Ciu En Lai cinquanta anni fa era troppo presto per giudicare la Rivoluzione francese. Chi sia meno paziente di lui deve rassegnarsi ad aspettare, in questa o altra vita, le conseguenze fatali della domanda posta in aereo ai giornalisti dal gesuita successore di Pietro: «Chi sono io per giudicare?».

@ferrarailgrasso

Foto Ansa

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