La scalata è finita

Di Bottarelli Mauro
19 Gennaio 2006
TELECOM ITALIA è FINITA NEL MIRINO DEGLI SPAGNOLI DI TELEFONICA MOVILES CHE FANNO STUDIARE LA PRATICA ALLA CITY E A LAZARD. COME NEL 1998, MA A PARTI INVERTITE

In questi giorni di veleni e indagini giudiziarie torna d’attualità la scalata a Telecom compiuta nel 1999 da Roberto Colaninno e dai “capitani coraggiosi”. «La madre di tutte le Opa», fu definita: per gli entusiasti fu la più coraggiosa tra le operazioni finanziarie mai tentate nel nostro paese, per gli scettici solo il più clamoroso tra i bluff. Tutti concordano però nel far coincidere la maxi-scalata della Olivetti al colosso Telecom con l’anno zero del capitalismo italiano. E, probabilmente, con l’atto prodromico alla situazione emergenziale – spesso debitamente gonfiata di significati non suoi – di commistione politico-finanziaria che stiamo vivendo in questi giorni.
La questione, però, non riguarda tanto analisi dietrologiche quanto la dura realtà che l’azienda telefonica italiana sta per affrontare: la City londinese, la stessa che nell’ottobre del 1998 creò la strategia dell’assalto al cielo finanziario italiano ora è tornata a capo chino sulla faccenda e si prepara a creare le condizioni per la cessione in mano straniera dell’ultimo baluardo di italianità industriale dopo le svendite del 1993: Tim, il comparto di telefonia mobile di Telecom, il boccone più ambito dal mercato. E chi trama nell’ombra avvalendosi dei servigi della Donaldson, Lufkin & Jenrette e della onnipresente Lazard, scomodando addirittura due grandi fondi statunitensi come Oak (che combinazione, “Quercia”, un nome che ritorna alla ribalta Telecom) e Blackstone? I francesi di Vivendi o molto più verosimilmente gli spagnoli di Telefonica Moviles, attivissimi sul mercato e decisi a puntare tutto sulla telefonia mobile.

HOPA-PIRELLI, NASCE LA NUOVA TELECOM
La madre di tutte le Opa rischia di tramutarsi nella figliastra di tutte le svendite e nella prova provata dell’immaturità del capitalismo italiano di fronte alle sfide di un’economia globalizzata. Ma come è possibile tutto questo, partendo dal presupposto che Tim è stata incorporata in Telecom e per scalare la prima occorre scalare l’intera galassia di Tronchetti Provera? Vediamo, unendo i fatti a qualche indiscrezione e supposizione. Lunedì scorso è cominciata infatti la trattativa tra Pirelli e Hopa per cercare una soluzione alla quota del 16 per cento che quest’ultima possiede in Olimpia, la scatola cinese alla quale fa capo, con appena il 17 per cento, l’intera Telecom Italia. La finanziaria di Chicco Gnutti non è più gradita a Marco Tronchetti Provera: secondo i patti, spetta al principale azionista, cioè Pirelli, la facoltà di liquidare Hopa, e Tronchetti ha già accantonato i quattrini necessari. A quanto ammonti l’assegno dipende dall’esito del negoziato. In attesa che questo capitolo si chiuda, se ne apre un altro. Anch’esso decisamente complesso. Protagoniste, le banche. Unicredit e Intesa posseggono ciascuna il 4,77 per cento di Olimpia. E hanno un diritto di uscita che possono esercitare entro il 4 aprile. Nulla si sa delle loro intenzioni. A Piazza Affari si dice che Corrado Passera, ad di Intesa, è disposto a restare, ma Alessandro Profumo, ad di Unicredit, è incerto: ha altre priorità, come la complessa fusione con Hypovereinsbank e più volte ha spiegato che non vuole restare azionista permanente in gruppi industriali, siano essi Fiat o Telecom. Nella City londinese, invece, c’è la convinzione che dopo Hopa usciranno anche le banche, lasciando l’azionariato di Olimpia in mano a Pirelli e Benetton. La famiglia di Ponzano Veneto è divisa: Gilberto, che ha in mano la strategia finanziaria, ha convinto i fratelli a restare al fianco di Mtp, ma senza aumentare la loro quota del 16,8 per cento. Pirelli ha il 57,66, assorbendo Hopa e le banche salirebbe all’89, sborsando circa due miliardi e mezzo di euro. Ancor più che il contante, quel che preoccupa è la fragilità della catena di comando di Telecom. Ed è proprio su questo che scommettono le banche d’affari della City e gli investitori istituzionali americani pronti a mettere a disposizione risorse per Telecom, sotto la regia di due delle principali banche d’affari che conoscono bene l’azienda italiana. Il paradosso è che nel 1999, si trovavano su fronti opposti. Mentre Dlj forniva le munizioni a Colaninno, Lazard era stata chiamata da Franco Bernabè per resistere all’Opa.

ACCADDE NEL 1998, MA SEMBRA OGGI
Questo lo stato attuale dell’arte, ma cosa c’entra tutto questo con la scalata di Colaninno e soci? Facciamo un salto indietro all’ottobre del 1998, quando tutto ebbe inizio. L’idea della scalata veniva infatti da lontano e a progettarla a tavolino furono gli strateghi di due importanti banche d’affari: il primo team di raiders era quello della newyorkese Donaldson, Lufkin&Jenrette, il secondo quello londinese della Lehman, da sempre partner nelle operazioni finanziarie della Olivetti. La scelta della società con cui compiere la scalata cadde subito sul gruppo di Ivrea, da pochi mesi (luglio 1998) controllato da una cordata di imprenditori del nord, e guidato da Roberto Colaninno attraverso la finanziaria lussemburghese Bell. Nel mese di novembre le due banche d’affari sottoposero a Colaninno e soci il piano per la scalata. Indipendentemente l’una dall’altra. Fu lo stesso Colaninno, vista la somiglianza tra i due progetti, a chiederne l’unificazione. E a fissare una clausola d’uscita: in caso di fallimento, l’Olivetti non avrebbe dovuto sborsare alle banche nemmeno una lira di commissione.
A questo punto mancavano però i soldi per dare il via all’operazione: Telecom era un colosso cinque volte più grande di Olivetti e le risorse del gruppo di azionisti bresciani che affiancano Colaninno non erano certo sufficienti a un’impresa del genere. Il manager bussò quindi alla porta della Chase Manhattan, la banca d’affari che lo aveva sostenuto nella scalata della Bell alla Olivetti. Ottene un sì da 40 mila miliardi di lire che la Chase scucì sull’unghia. La scalata poteva partire, occorreva però individuare la società attraverso la quale iniziare il take-over. Dopo lunghi consulti Colaninno scelse la piccola Tecnost, già controllata da Olivetti, sulla quale viene lanciata una offerta di pubblico acquisto. Nel gennaio del 1999 (i ricorsi temporali, a volte, non sono casuali) il piano venne definito nei dettagli. L’Opa sarebbe stata da 100 mila miliardi di lire: 15 mila provenienti dalla vendita dei gioielli di famiglia Ominitel e Infostrada alla tedesca Mannesmann, 5 mila da un aumento di capitale della Olivetti, 40 mila dai banchieri della Chase e i rimanenti 40 mila da un abile gioco di scatole cinesi. Agli azionisti Telecom sarebbero stati offerti in cambio delle loro azioni 40 mila miliardi, appunto, in azioni della Tecnost.
«Praticamente l’idea è far pagare l’acquisto agli stessi azionisti Telecom», dissero i nemici di Colaninno. Il progetto comunque passò, il missile era sulla rampa di lancio. E a fine mese Colaninno fece ciò che ogni imprenditore italiano impegnato in un’operazione simile è costretto a fare: sondò il mondo politico. Incontrò il ministro dell’Industria, il diessino Pier Luigi Bersani, per illustrare il piano della scalata. Bersani ascoltò e diede il suo assenso, legato però a una condizione imprescindibile: in caso di successo i raiders non avrebbero venduto Tim, come era invece previsto nel piano studiato dai banchieri di Londra e New York. L’autorevole consiglio venne accettato. All’inizio di febbraio a Piazza Affari cominciarono a circolare voce incontrollate su una possibile scalata a Telecom: esattamente come oggi circolano voci su un interessamento della City. Per adesso nessuno sta rastrellando azioni ma si sa che certe operazioni è meglio non pubblicizzarle troppo prima che le condizioni siano state raggiunte. E soprattutto prima che l’assetto Telecom abbia trovato un minimo di instabilità (non è un refuso) con l’accordo tra Hopa e Pirelli e la definizione di un nuovo assetto societario.

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