
La satira del Minculpop
Dopo la trasformazione dello show di un noto comico in brillante trovata di marketing per un libro (nuovo) di accuse (vecchie) contro Silvio Berlusconi, firmato da quel giornalista (non satirico) di Repubblica sodale di Flores D’Arcais, gli autori “classici” della satira italiana, da Vincino a Forattini, hanno riconosciuto l’anomalia di un certo uso degli spazi satirici e della televisione (torna alla mente la lezione su “L’informazione televisiva in Italia: censura e contraffazione” con cui nel ’99, alla Sorbona, Antonio Ricci smascherò gli applausi finti del Tg1 per Rosy Bindi). Non che la satira conformista non sia mai esistita, ma insomma non è esattamente legata a periodi memorabili della nostra storia. Le proprietà dei giornali con tiratura più alta (dal Corsera alla Stampa) erano controllate da gruppi editoriali di fiducia del Pnf e sui fogli satirici del Marc’Aurelio, del Bertoldo o del Guerin Meschino trovavano spazio solo l’umorismo disimpegnato o le battute fedeli alle veline dell’Ufficio Stampa (dal 1937 Ministero della Cultura Popolare). Con l’Asse Roma-Berlino e l’inizio della campagna antisemita (mentre i giornalisti erano invitati ad utilizzare le formule “giudeo” e “giudaismo”), si disegnavano vignette contro negri ed ebrei (anche su La Stampa e Il Balilla) che facevano leva sul pregiudizio popolare. Non mancavano gli attacchi ad Hailé Salassié, “feroce”, “assassino” e “corrotto” – come tutti i governanti del popolo etiope, avventurieri assetati di potere, traditori e scellerati, tanto che l’aggressione all’Etiopia venne presentata come l’opera di moralizzazione di un popolo. In quello stesso periodo, anche un altro paese metteva alla berlina della satira dissidenti e nemici del potere. Ricordiamo un Mussolini trasformato in Ayatollah che da un minareto a forma di fascio invita alla guerra santa. Era firmata Vasilij Formichov, uno dei vignettisti più brillanti dell’Urss, collaboratore della Pravda, fustigatore del Piano Marshall e dell’Occidente corrotto. Forse però l’esempio migliore di satira sovietica resta il Krokodil, giornale di “critica” interna al sistema, che riservava una vaga ironia populista alla nomenklatura, concentrando i suoi (pesanti) attacchi sui nemici di volta in volta indicati dal Pcus.
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