La riforma scolastica e i senzafuturo

Di Cominelli Giovanni
20 Ottobre 2005
INTERESSI DI CORPORAZIONE E INDISPONIBILITÀ A INVESTIRE NEL FUTURO HANNO FRENATO LO SLANCIO DELLA RIFORMA MORATTI. CHE, COMUNQUE, QUALCOSA DI BUONO LO HA PORTATO

Scampata all’ultimo siluro lanciato dalle Regioni, all’ostruzionismo sistematico e ostinato degli apparati ministeriali condotto fino alla vigilia, agli anatemi ideologici lanciati dall’opposizione di centro-sinistra, alla guerriglia scuola per scuola, classe per classe organizzata dai sindacati, agli slogan irridenti gridati dal “movimento” contro “MorAttila”, eccola qua la riforma Moratti, la prima riforma legislativa delle scuole superiori dal 1923. Essa ricomprende e supera le 2.298 sperimentazioni attuate in tempi e modi diversi nei 2.368 istituti secondari, secondo un disegno europeo per finalità e contenuti: personalizzazione dei piani di studio, flessibilità didattica e organizzativa, padronanza dell’inglese fino al bilinguismo, seconda lingua comunitaria, laboratori e alternanza scuola-lavoro, matematica e patentino informatico. Il nocciolo della riforma è costituito dall’articolazione del secondo ciclo in due canali, di cui uno liceale e uno di istruzione e formazione professionale, di pari spessore e dignità, di competenza regionale, con la possibilità di passaggio da un canale all’altro.

Scontenti e moderatamente soddisfatti a destra e a sinistra
Sul versante dei docenti, per favorire il reclutamento di personale più giovane, qualificato e valutato anche dalle scuole sono previsti: la laurea magistrale, gli albi regionali degli abilitati, concorsi riservati agli abilitati, modalità di concorso che aprono la possibilità alle scuole del concorso di istituto. Secondo l’opposizione si tratta di una vera e propria controriforma. La partizione anticipata del ciclo superiore in licei e istruzione professionale avvierebbe i ragazzi iscritti a quest’ultima verso un destino sociale povero e subalterno. Sull’assetto complessivo tirerebbe un’aria di aziendalizzazione e di privatizzazione, prova essendone gli accordi con Confindustria e le altre associazioni imprenditoriali.
Per i riformisti radicali, viceversa, questo è il lato positivo della riforma. Le imprese tornano, come negli anni Sessanta, ad intervenire nella progettazione dei percorsi vocazionali – liceo tecnologico ed economico – divenendo imprese formative, attente alla formazione iniziale dei giovani. Che è anche l’unico modo per contrastare la grave dispersione scolastica e formativa. I riformisti radicali, pur dando atto alla riforma Moratti di avere operato una cesura innovativa, sottolineano i cedimenti del governo e della maggioranza parlamentare ai pesanti compromessi che le corporazioni interne al sistema e le pressioni dei sindacati hanno alla fine vittoriosamente imposto. Almeno cinque: il permanere di un impianto liceale di ore e materie troppo pesante, omaggio evidente al già clamoroso surplus di personale; la creazione del sistema di istruzione e formazione professionale, affidata alle Regioni, rinviata per ora all’anno formativo 2007-08 (dando luogo, contro le lodevoli intenzioni originarie, a un sistema sbilenco: tutto liceale, tutto scolastico, tutto statale); le scuole paritarie – luoghi preziosi di educazione – sopravvivono con grandi difficoltà; la legge sul nuovo stato giuridico è ferma in Commissione alla Camera. Senza parlare della debolezza del radicamento del processo riformistico sul terreno della scuola reale, dovuta a errori tattici: quale quello di incominciare l’avventura della riforma dalla scuola di base invece che dalla superiore, confondendo l’ordine logico e pedagogico – prima la scuola primaria, poi quella secondaria – con quello cronologico e politico – prima la scuola secondaria e poi quella di base. E tuttavia dobbiamo riconoscere che la rottura riformistica è un fatto, che il cammino verso un cambiamento è incominciato. «Manca – commenta Roberto Persico, presidente di Diesse – l’affidamento del reclutamento degli insegnanti alle scuole, che avevamo chiesto. Ma non ci possiamo lamentare troppo. Il decreto sulla formazione degli insegnanti introduce elementi interessanti, come l’anno di praticantato prima dell’accesso ai concorsi. Mentre oggi l’anno di straordinariato è di fatto una formalità, anche perché interviene a diritto acquisito, nel nuovo sistema diventa non solo un periodo di formazione sul campo, ma anche di verifica della reale attitudine del candidato all’insegnamento. La formazione e la valutazione dei futuri insegnanti non sono totalmente delegati all’università, ma anche il mondo della scuola ha per la prima volta voce in capitolo».
Moderatamente soddisfatto anche Franco Nembrini, presidente della Federazione Opere Educative: «La versione del decreto sulla formazione degli insegnanti licenziata in maggio obbediva ad una logica statalista ormai superata, perché programmava gli accessi alla laurea specialistica per l’insegnamento solo in relazione al fabbisogno della scuola statale, e prevedeva che ogni insegnante abilitato sarebbe automaticamente entrato nei ruoli dello Stato. Se fosse rimasto in quella forma, le scuole paritarie, semplicemente, non avrebbero avuto più docenti. Alla fine invece hanno prevalso il buon senso e il riconoscimento del fatto che il sistema scolastico italiano ormai è un sistema che ha più gestori. Così nel decreto approvato venerdì scorso è previsto che alle lauree per l’insegnamento sia ammesso un 30 per cento di candidati in più rispetto alle necessità stimate per la scuola statale, “in relazione al fabbisogno dell’intero sistema nazionale di istruzione”, cioè perché ci siano insegnanti anche per le scuole paritarie».

Interessi “densi” contro interessi diffusi
Perché questa e altre riforme hanno avuto ed avranno un cammino così tortuoso e tormentato? Una spiegazione la fornisce Lester Thurow in Futuro del capitalismo. In un’era di industrie ad alto contenuto intellettuale, la questione principale è quella di investire a lungo termine. Ora, né le famiglie né le imprese investono a lungo termine. Il calcolo economico spiega che un investimento in istruzione ritorna dopo quindici anni. Essi appaiono troppi sia alle imprese che alle famiglie. Così, nonostante la retorica corrente sui giovani, sul futuro, sull’istruzione e la ricerca, già alcuni anni fa il Censis segnalava che questo tema era solo al quarto posto nella scala delle preoccupazioni degli italiani. La crisi della famiglia e la sua perdita di importanza economica aggravano il disinteresse per la questione educativa. Tocca ai governi «rappresentare gli interessi del futuro di fronte al presente». Ma i governi, tanto più quelli istituzionalmente deboli come in Italia, sentono più forte la spinta degli “interessi densi” piuttosto che quella degli interessi diffusi. Questi servono a raccogliere il consenso elettorale, ma sono quelli densi a influenzare concretamente le scelte del Parlamento e del governo. Così un milione di addetti alla scuola, con gli annessi familiari e i connessi sindacali, amministrativo-ministeriali e politici, è in grado di deformare qualsiasi disegno di riforma secondo i propri legittimi interessi, che tuttavia sono in conflitto con quelli altrettanto legittimi degli 8.728.800 ragazzi e ragazze, che frequenteranno le scuole della repubblica nel 2006-07. Alle loro spalle sta un Paese ancora opulento, ma in declino demografico, nel quale gli interessi degli anziani e degli adulti prevalgono di gran lunga, un Paese che non vede il futuro e che è condannato a non averne. Il fatto è che investire significa differire il consumo presente. Nessuno è più disposto a farlo sul lungo periodo in una società avara di futuro. Solo alcune minoranze creative.

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