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La resurrezione del larice

Il larice respirava nell'appartamento moscovita per ricordare a ognuno il proprio dovere, perché nessun uomo dimenticasse i milioni di cadaveri, i milioni di persone che avevano perso la vita alla Kolyma. Un racconto di Salamov

Varlam Šalamov
17/04/2022 - 6:27
Cultura
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In occasione della Pasqua 2022 pubblichiamo un brano di “La resurrezione del larice”, tratto da “I racconti di Kolyma” di Varlam Šalamov.

Un uomo dell’Estremo Nord cerca una via di sfogo al proprio sentimento, non distrutto né del tutto avvelenato da decenni di vita alla Kolyma. L’uomo spedisce per via aerea un plico: non libri, fotografie o versi, ma un ramo di lance, un ramo morto della natura vivente.

A Mosca mettono questo strano regalo – il ramo di un albero artico, colore marrone chiaro, secco, raffreddato dai venti della traversata aerea, avvizzito, strapazzato nel vagone postale, severo e scarno – nell’acqua.

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Lo mettono in un barattolo da conserva, riempito con la caustica acqua dorata e disinfettata dell’acquedotto di Mosca, un’acqua che, si direbbe, è ben contenta di far disseccare ogni cosa che vive: la morta acqua dei rubinetti di Mosca.

I larici sono qualcosa di più serio dei fiori. In questa stanza ci sono abitualmente molti fiori dai vividi colori. Fasci di rami di ciliegio selvatico o di lillà vengono divisi e disposti in grandi mazzi immersi nell’acqua calda.
Il larice è nell’acqua fredda, appena appena riscaldata. Viveva più vicino al fiume Nero di tutti questi fiori, di tutti questi rami fioriti di ciliegio e lillà.

La padrona di casa lo capisce. E anche il larice.

Obbedendo all’appassionata volontà umana, il ramo raccoglie tutte le sue forze, fisiche e spirituali, poiché il ramo non può risorgere con le sole forze fisiche – il caldo moscovita, l’acqua colorata, l’indifferente barattolo di vetro. Nel ramo si risvegliano altre forze, misteriose.

Passano tre giorni e tre notti e la padrona di casa viene svegliata da uno strano, vago odore di resina, debole, sottile, nuovo. Nella ruvida pelle legnosa si sono aperti e sono apparsi distintamente gli aghi – freschi, giovani e vitali, dal colore verde – i nuovi germogli.

Il larice è vivo, il larice è immortale, questo miracolo della risurrezione non poteva non realizzarsi poiché il larice era stato messo nell’acqua nell’anniversario della morte, alla Kolyma, del marito della padrona di casa, il poeta.

Persino questo ricordo contribuisce al ritorno alla vita, alla resurrezione del larice.

Il delicato profumo, la smagliante verzura sono importanti principi vitali. Deboli ma presenti, richiamati da qualche misteriosa forza spirituale, nascosti nel larice prima di manifestarsi al mondo.

Il profumo del larice era debole ma definito, e nessuna forza esistente avrebbe potuto soffocare quel profumo, avrebbe potuto spegnere quella luce verde, quel colore verde.

Per quanti anni – storpiato dai venti, dal gelo, nel suo ostinato seguire il corso del sole – il larice aveva levato al cielo a ogni primavera i rami verdeggianti.

Per quanti anni? Cento. Duecento. Seicento. Il larice di Daurija giunge a maturità in trecento anni.

Trecento anni! Il larice, il cui ramo, un rametto, respirava su quel tavolo di Mosca è coetaneo di Natal’ja Šeremeteva-Dolgorultova e ne può ricordare il doloroso destino: le alterne fortune della vita, la fedeltà e la fermezza, la tenacia dello spirito, le sofferenze fisiche e spirituali, per nulla diverse da quelle dell’anno ‘37, con la natura del Nord, piena di odio violento per l’uomo, il pericolo mortale delle piene primaverili e delle tormente invernali, le delazioni, l’arbitrio grossolano dei funzionari, le esecuzioni, lo squartamento, il supplizio alla ruota di marito, fratello, figlio e padre, che si accusano a vicenda, tradendosi l’un l’altro.

Non è forse un eterno soggetto russo?

Dopo la retorica del moralista Tolstoj e il frenetico predicare di Dostoevskij ci sono state guerre e rivoluzioni, Hiroshima e i campi di concentramento, delazioni ed esecuzioni.

Il larice ha spostato le scale temporali, ha svergognato la memoria dell’uomo, ha ricordato ciò che non può essere dimenticato.

Il larice che ha visto la morte di Natalija Šeremeteva e ha visto milioni di cadaveri immortali nel gelo perenne della Kolyma – che ha visto la morte del poeta russo, quel larice vive da qualche parte nel Nord per vedere e gridare che in Russia non è cambiato niente: né la sorte degli uomini, né la loro malvagità e indifferenza.

Natalija ha tutto raccontato, tutto annotato con mesta forza e fede. Il larice, un ramo del quale ha ripreso a vivere su un tavolo di Mosca, esisteva già quando la Šeremeteva percorreva la sua strada di dolore fino a Berèzovo, una strada cosi simile a quella per Magadan, al di là del mare di Ochotsk.

Il ramo di larice stillava, proprio così, stillava il suo profumo come linfa. Il profumo si trasfondeva nel colore e non c’erano tra essi confini.

Il larice respirava nell’appartamento moscovita per ricordare a ognuno il proprio dovere, perché nessun uomo dimenticasse i milioni di cadaveri, i milioni di persone che avevano perso la vita alla Kolyma.

Il debole ma persistente profumo era la voce dei morti.

Ed era a nome di quei morti che il larice osava respirare, parlare e vivere.

Per risorgere ci vuole forza e fede. Sistemare un ramo in un vaso non basta di sicuro. Anch’io una volta avevo messo un ramo di larice in un barattolo con dell’acqua: il ramo si era seccato, era diventato fragile e vuoto, senza più vita. Il ramo era sparito nel nulla, non era risorto. Ma il larice nell’appartamento del poeta, sì.

Sì, ci sono rami di ciliegio fiorito, rami di lillà, ci sono romanze che pungono il cuore; il larice non è un argomento, un soggetto adatto alle romanze.

Il larice è un albero molto serio. E l’albero della conoscenza del bene e del male – non era un melo e neanche una betulla l’albero che si trovava nel giardino dell’Eden prima della cacciata di Adamo ed Eva.

Il larice è l’albero della Kolyma, l’albero dei campi di concentramento.

Alla Kolyma non ci sono uccelli che cantano. I fiori della Kolyma sono vividi, frettolosi, grossolani – non hanno profumo. Un’estate breve – nell’aria fredda e senza vita – con caldi secchi, e di notte un freddo che ti ghiaccia.

Alla Kolyma profuma solo la rosa di montagna con i suoi fiori color rubino. Non manda odore il roseo mughetto, rozzamente modellato, e neppure le grosse viole delle dimensioni di un pugno, né l’anemico ginepro, né il sempreverde pino nano.

Solo il larice riempie boschi e foreste del proprio vago sentore di resina. Sembra a tutta prima un odore di decomposizione, l’odore dei morti. Ma se ti ci abitui, se lo aspiri più profondamente capisci che è l’odore della vita, l’odore di ciò che resiste alla spietatezza del Nord, l’odore della vittoria.

E del resto alla Kolyma i morti non puzzano, troppo sono esauriti e dissanguati; e poi a conservarli provvede il gelo perenne.

No, il larice non è un albero che si presti per le romanze, di quel ramo non canterai, su quel ramo non comporrai una romanza. Qui la parola è a un’altra profondità, appartiene a un diverso livello del sentire umano.

Un uomo manda per posta aerea un ramo della Kolyma: non per farsi ricordare. Non per ricordare se stesso ma quei milioni uccisi, straziati a morte, che giacciono nelle fosse comuni a Nord di Magadan.

Aiutare gli altri a ricordare, togliersi dall’anima questo peso così gravoso: vedere tutto quanto, trovare il coraggio non di raccontare ma di ricordare. L’uomo e sua moglie avevano adottato una bambina – la bambina reclusa di una madre morta in ospedale: assumersi almeno un qualche obbligo personale, adempiere un proprio personale dovere.

Aiutare i compagni, quelli che erano sopravvissuti ai campi di concentramento dell’Estremo Nord…
Spedire quel ramo severo ed elastico a Mosca.

Spedendo il ramo l’uomo non supponeva, non sapeva, non pensava che a Mosca lo avrebbero rianimato e che esso, risorto, avrebbe di nuovo odorato di Kolyma, sarebbe fiorito in una via di Mosca; che il larice avrebbe dato prova della propria forza, della propria immortalità – seicento anni di vita del larice significano per l’uomo praticamente l’immortalità -; e che altre persone a Mosca avrebbero toccato con le mani quel ramo severo, modesto, scabro, avrebbero guardato il suo verde manto smagliante, la sua rinascita, la sua resurrezione, avrebbero respirato il suo profumo non come memoria del passato, ma come una nuova vita.

Tags: letteraturapasqua
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