La resistenza spiegata a mia figlia

Di Bobo
05 Maggio 2005
EINAUDI CONTINUA A CENSURARE I TESTI CHE RACCONTANO LA RESISTENZA ROMPENDO VECCHI STEREOTIPI. MA L'ONDA DEI NUOVI STUDI, PIù COERENTI CON LA VOCAZIONE VERA DELLO STORICO, NON PUò ESSERE ARRESTATA

Casa Einaudi concede il bis. Già qualche anno fa si era esibita in un poco edificante spettacolo di censura intellettuale, rifiutando di pubblicare la prefazione che aveva chiesto a Gustaw Herling per i Racconti di Kolyma di Varlam Shalamov. Il testo allora fu pubblicato a parte da L’ancora del Mediterraneo. Che oggi dà alle stampe questa Resistenza spiegata a mia figlia, altro testo che la famosa casa editrice ha ripudiato. Eppure l’aveva commissionato a uno storico dal pedigree immacolato: Alberto Cavaglion, ricercatore dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza, uno studioso serio, certamente competente, anche schierato. Ma ha scritto cose che non sono piaciute. Eppure non ha detto nulla contro l’oggetto del suo libro. Anzi. «Una volta al secolo, qualcosa di serio e di pulito può accadere in questo Paese»: l’espressione di Giorgio Agosti, alias comandante Paragone, ripetutamente citata nel libro, potrebbe sintetizzarne lo spirito. Il giudizio è netto: «Nello studio della Resistenza ci troviamo davanti a un caso perfetto di passaggio dal male al bene; anzi, per il nostro paese, si è trattato di un passaggio dal male al meglio». Ma proprio per questo non c’è bisogno di miti, di abbellimenti, di canonizzazioni posticce. Allora è possibile riconoscere che i partigiani furono agli inizi in gran parte quegli stessi militari che fino a un attimo prima avevano militato fedelmente sotto le bandiere del re. Che «il fascismo è caduto da solo, la guerra l’hanno vinta gli angloamericani, la Resistenza da sola non avrebbe potuto liberare l’Italia». Che «l’immagine che più ritorna nelle testimonianze del tempo non è quella di un’azione pienamente consapevole: è la metafora di un’onda, dalla quale molti giovani si fanno trascinare, senza chiedersi e capire perché». Che spesso un capello, un imponderabile ha segnato per tanti ragazzi la scelta fra Salò e la montagna. Che la rappresaglia contro i civili, pur spietata, era scritta nelle norme di guerra, e occorre distinguere la crudeltà gratuita dalle azioni che in qualche modo rientrano nella logica di un tempo tanto drammatico. Eccetera. Il che nulla toglie ai tanti che, con maggiore o minore coscienza, si sono battuti contro la tirannide. Anzi. Liberate dalle incrostazioni retoriche, sono proprio le vite dei singoli a emergere più nette dallo sfondo, ciascuno con i suoi drammi, i suoi dubbi, le sue debolezze, i suoi eroismi. Dalle pagine di Cavaglion esce dunque l’immagine di una Resistenza più realistica, più articolata, più umana. In una parola più vera. Ma alle vestali del mito non è piaciuta.

EFFETTO SATURAZIONE
Vi proponiamo due citazioni tratte dal libro: «Negli anni scorsi la memoria resistenziale è stata così irrigidita da impalcature retoriche da rendere impossibile adesso il solo parlarne. Si è prodotto un gigantesco effetto di saturazione. Ci vorranno anni e anni per rimediare agli errori commessi, talora dagli stessi protagonisti degli eventi. Eppure, se togli le bende che hanno imbalsamato la guerra partigiana, e leggi una ricerca prodotta da uno studente indipendente nel suo giudizio, provi una gioia incontenibile. Leggendo questi giovani che mostrano i denti verrai a conoscenza di storie che, in passato, gli imbalsamatori della Resistenza si sono guardati bene dal rievocare: storie scabrose in nessun modo rubricabili nella disciplina di un partito, anarchiche come tutte le migliori storie partigiane, storie che non esiterei a definire “maledette”, per il dolore che i protagonisti provocarono a sé e ai loro cari, ma anche perché slegate da una precisa appartenenza politica o religiosa: storie di confine, che hanno per protagonisti strana gente, antieroi non incasellabili in alcuno schema predefinito e perciò destinati a rimanere nel limbo. Del resto, la guerra per bande fu opera di minoranze; nulla di più sbagliato che considerarla, come a lungo s’è fatto, guerra di popolo».
«Entrare dentro le ragioni della storia vuol dire attribuire a tutti i personaggi protagonisti di una certa vicenda storica uguale dignità, dunque anche a coloro che militarono nella parte avversa a quella per cui noi simpatizziamo. (.) Per chi si occupa di storia del Novecento non dovrebbero esistere fatti buoni o fatti cattivi, personaggi completamente negativi, ma solo fatti o personaggi non pienamente intesi. La stessa espressione “male assoluto”, ricorrente sui giornali e nei discorsi dei politici, non dovrebbe rientrare nelle categorie che lo storico adopera normalmente. E non dovrebbero esservi nemmeno partiti avversi, cui contrapporre in modo presuntuoso la moralità dei nostri eroi. Quando si vive dentro la storia l’avversario che ci sta di fronte ha, ovviamente, torto e per questo lo combattiamo con tutte le nostre forze; quando però facciamo storia dobbiamo liberarci il più possibile da qualunque valutazione morale, da ogni passione. è necessario uno sforzo per dare all’avversario non la ragione storica, che non potrà avere, ma la “dignità” storica senza la quale risulta impossibile ogni nostra ricostruzione di quel periodo».

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