Baalbek (Libano)
La cima del Monte Libano, a tremila metri di altezza, separa la Valle dei Santi, la ripida e scoscesa catena di gole e grotte dove si rifugiarono i monaci maroniti, dalla Valle della Bekaa. Era la valle, un tempo, degli idoli pagani, i Baal. Era diventata, negli ultimi trent’anni, il cuore del fondamentalismo musulmano hezbollah, da dove partivano gli attacchi a Israele, e delle coltivazioni di hashish e dei traffici di droga che finanziavano le milizie. Controllata in parte dai signori della guerra libanesi e in parte dai soldati siriani. La valle dove durante la guerra civile gli occidentali non potevano entrare, dove nessun giornalista si azzardava a mettere piede. Una valle infernale, dicevano allora. Dove non può crescere nessuna speranza. Eppure proprio in questa valle c’è, e vive, una piccola, tenace comunità cristiana. Non era tanto piccola, fino a vent’anni fa: i maroniti qui erano 75 mila. Ora sono rimasti in 10 mila, guidati da un nuovo arcivescovo, monsignor Semaan Atallah, un uomo di 65 anni che per trenta è stato superiore generale dei monaci antonini maroniti. Un uomo sereno, che quando è stato scelto dal Papa, sette mesi fa, per prima cosa ha invitato i cristiani a restare, a non cercare scampo nell’esilio. «È un dovere grave per voi restare qui», ha detto. A costo della vita.
Porte aperte ai rifugiati musulmani
«Voi in Europa ci avete insegnato tante cose – dice a Tempi Atallah nella sua casa di Dair El Ahmar, vicino a Baalbek, l’antica Heliopolis – ma quando vi sento parlare di cristianesimo mi sembra che parliate di una filosofia. E quando parlate di dialogo avete in mente qualcosa di intellettuale, siete ideologici. Ma come si fa? Così si ignora l’evidenza che il cristianesimo è una vita. Meglio: una presenza. La nostra, la mia, la tua presenza. Non occorre essere scaltri, saper parlare (si parla anche troppo), saper convincere gli altri. Non è questo il cuore della fede. Il cuore è un fatto. Gente viva che c’è. Persone che credono in Cristo e Cristo tra loro, attraverso di loro. È questo che salva. Non la politica o le armi. È un uomo fra gli altri uomini».
Monsignor Atallah ci mostra dalla terrazza il villaggio. Case segnate dalla guerra, e tra le case le viti, che a millecento metri di altezza, sotto il sole mediorientale, producono un vino forte, carico di odore e sapore. «Guardate. Qui questa estate si sono rifugiati duemila musulmani: i loro villaggi erano stati distrutti dai bombardamenti degli israeliani che volevano stanare gli Hezbollah. Anch’io sono rimasto stupito dalla naturalezza con cui la mia gente ha aperto loro le porte. È questa la nostra missione, stare qui. È questo il nostro dialogo, essere presenti. Il resto verrà. Io dico sempre ai miei fedeli: siate presenti agli altri. I musulmani incontrando noi e Chi è tra noi imparano ad aprirsi, anche fra loro. Sciiti e sunniti si odiano, ma nei villaggi dove ci sono i cristiani hanno imparato a stare insieme». È vero: nei villaggi della valle incontriamo famiglie cristiane e musulmane, sunnite e sciite che festeggeranno insieme il Natale. La nascita del Figlio di Dio, o del profeta Gesù, non è un argomento su cui discutere, è un avvenimento da accogliere con gioia. «In Libano – riprende l’arcivescovo – abbiamo una responsabilità storica. Siamo stati piantati come un seme nella terra. Il seme della pace è questo avvenimento. La convivenza è il pane quotidiano che mendichiamo al Padre Nostro. Non siamo i migliori, non siamo i perfetti, siamo pieni di errori e di peccati. Ma siamo. Ci siamo. Il resto verrà. Ciascuno vede e in coscienza sceglie. La bellezza di una fede si manifesta: se un cristiano trova la felicità nell’islam, che lo segua. E se un musulmano è attratto dalla bellezza del cristianesimo, se sente che è lì la sua verità, dovrebbe essere libero di fare altrettanto. Purtroppo per l’islam è più difficile accettare questa apertura totale all’altro. Per noi è più naturale, perché siamo stati chiamati ad essere persone libere, capaci di seguire la propria coscienza e cariche della responsabilità di agire. Di andare fino in fondo alla nostra strada. Siamo stati chiamati a seguire la verità. E la verità è bella, risplende, attrae perché è ciò per cui l’uomo è stato fatto».
L’Europa, un miraggio
Nella valle salgono i fumi di una nebbia lontana che si dirada. Il Libano è sull’orlo di una nuova guerra civile, mentre il vescovo ci parla di un nuovo dialogo. «Il dialogo ha bisogno di persone vere che si incontrano. Purtroppo vedo che in Europa l’uomo è sempre più solo. Molti libanesi, molti giovani, guardano a voi come a un ideale, emigrano nelle vostre città. Poi, però, restano delusi. Non solo per problemi economici o di integrazione: l’immagine che prevale è quella di un uomo solo. Anzi, isolato». L’arcivescovo guarda le case della sua gente, e tra le case giocano bambini che non hanno mai visto la pace, che quando sentono il rumore di un aereo o un boato scoppiano a piangere. E quando giocano, giocano alla guerra. «Certo, qui abbiamo altre e ben più gravi emergenze. Il paese dei cedri ha pagato cara la sua natura di luogo aperto al mondo. Abbiamo accolto tutte le comunità religiose e tutte le famiglie in fuga del Medio Oriente. Dagli armeni ai palestinesi. Vivevamo in pace, diciotto confessioni e comunità religiose diverse. Poi l’equilibrio si è rotto e la storia la conoscete. Ma devo dire che sedici anni di guerra civile non sono riusciti a sradicare la nostra vocazione alla convivenza e al dialogo. Molti sono scappati all’estero, tanti sono morti. Tanti ancora pensano solo a odiare. Ma c’è una radice, ed è una radice tenace, che resiste. Che per natura è aperta agli altri. Ognuno di noi ha visto cose terribili. Ogni famiglia piange morti e dispersi. Molti giovani hanno aderito ai partiti seguendo i clan che dominavano nei loro villaggi, esasperati dal desiderio di vendetta. Nessuno ignora tutto questo. Ma non possiamo essere vittime dei problemi. È il momento in cui le nostre forze devono essere tese alla pace, non alla vendetta. È una lotta che passa dentro di noi, ogni giorno. Di qualunque fede, di qualunque confessione siamo, siamo fratelli libanesi. Il cuore del Libano è la convivenza, la pace. Non la guerra, come pensa il mondo intero. Lo aveva capito Giovanni Paolo II. Quando è venuto qui, quasi dieci anni fa ha detto: “Il Libano è più di uno Stato. È un messaggio per il mondo”. Il Libano è una profezia. La profezia del futuro dell’umanità. Se qui vincerà la guerra, la vendetta, allora vincerà in tutto il mondo. Non siate ciechi. Non è vero che l’Occidente è cristiano e l’Oriente musulmano. Il cristianesimo è nato qui, qui ha le sue radici e l’islam è ormai di casa in Occidente. Non è una questione geografica, non c’è un confine da difendere. È una convivenza che occorre imparare a far crescere, nella verità. E non si dialoga rinunciando a se stessi. Molti europei pensano che il modo migliore per dialogare sia cercare di non avere identità, essere nulla, nessuno». Impossibile non pensare ai commercianti di casa nostra che hanno rinunciato agli addobbi natalizi per paura di offendere la clientela islamica, mentre qui in Libano tutti festeggiano con gioia la nascita di Gesù.
«Chi incontri se non hai nome?»
«Non è facile convivere, ma il fondamento è esserci, essere se stessi. L’originalità della vocazione cristiana è una testimonianza basata su una Presenza – insiste Atallah – non è un’ideologia, è una vita. Il pluralismo per noi è ricchezza, perché non abbiamo paura di perderci, di non essere noi stessi. Come puoi incontrare l’altro se rinunci al tuo nome? Chi ti incontra cosa incontra? Ma che nome hai se sei solo? Ecco il vero pericolo, non essere più un popolo ma una somma anonima di individui. Allora si perde, si perde la propria persona, si perde la propria casa e la propria libertà».