La poesia di Gabellini è uno schiaffo che risveglia dalla “vita palliativa”
«Una mano sulla spada,/ la sorpresa ancora sulla bocca». Con questi versi il poeta Roberto Gabellini s’infila in un’intercapedine stretta, attraverso cui la voce riesce a trovare parole di cura senza nascondere che tendiamo a muoverci a mani armate e passi guardinghi in mezzo ai colpi duri della vita.
Nella sua ultima raccolta poetica, Era questo l’amore? (Moretti & Vitali 2023), c’è tanta attesa e un’abbondanza di virgole. Ogni giornata è un accatastamento di dati, la poesia ne prende atto e resta nel posto un po’ scomodo di chi non si precipita a introdurre nessi causali, temporali, consecutivi per chiudere in fretta la partita con gli accadimenti e dar loro un senso compiuto (a nostra misura). Proprio mettendo i dati sul tavolo, snocciolandoli uno dopo l’altro, salta fuori che non siamo performanti come ce la raccontiamo.
Ne abbiamo un esempio clamoroso che fa audience. Lo scandalo dell’abuso di oppiodi negli Stati Uniti (mezzo milione di morti per overdose dal 1999 al 2019) ha dato molto pane alle serie tv e sono stati sfornati contenuti finiti in cima alle classifiche su questa dipendenza da antidolorifici trasformatasi in ecatombe collettiva. «Il dolore non è più qualcosa che dobbiamo sopportare», a posteriori il teatro mediatico assegna questa battuta al personaggio cattivo che specula sul male di vivere porgendo la mela avvelenata del sollievo analgesico. Ma oltre la cronaca travasata nella fiction c’è di più, come spiega Byung-Chul Han: «Solo un’ideologia del benessere permanente può far sì che farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa vengano impiegati in grande stile anche su persone sane. La società palliativa coincide con la società della prestazione» (da La società senza dolore).
Dar voce al dolore fa male e chiude poche frasi. Ma quello che il poeta invita a percorrere non è un vicolo cieco, è un corridoio lucido di attesa, appunto. La lucidità che può sostenere un passo di vita ardito non è una disamina razionale calibrata sul miraggio della prestazione top. La vista si pulisce dentro l’intercapedine stretta, dove c’è molto che patisce. «La carne stessa senza voce aspetta/ qualcuno, ancora, che non abbia paura,/ un lampo che scavi lo sguardo, le offra/ una carezza, solo, una canzone». Non c’è posizione più disarmata di chi aspetta una carezza.
C’è qualcosa che porti consolazione e protezione e che sia meno instabile dell’autodifesa armata? Possiamo togliere la mano dalla spada? Accettare di essere esposti a questo bisogno ci lucida, ed è la pulizia di una ferita dolente, ma rimarginabile.
L’uomo ha un recettore intimo che è cocciutissimo, «aspetta un rumore, un sospiro per sapere di non essere più solo». Un rumore basta, neppure occorre che sia qualcosa di soave e ammiccante. Ci svegliamo all’ipotesi dell’amore (alla scommessa di costruire un legame con l’esistente) tutte le volte che diamo credito a un fiato che viene da fuori, qualcosa che spezzi il baccano interiore. Allora «leggera, l’anima si appoggia, si misura, vuole arrivare in cielo, invece, esposta per sempre; il giudizio già scritto sulle spine».
Di solito usiamo l’espressione ‘stare sulle spine’ intendendo quel fremito incontenibile di passare alla puntata successiva, la trepidazione di vedere sciolti i nodi, svelati i misteri. La voce poetica di Gabellini capovolge la questione: qui, mentre sei punzecchiato da obiezioni e calvari, cosa raccogli e custodisci?
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