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La nuova Aia spinge l’Ilva sull’orlo del baratro

Facendo il gioco di tecnocrati e procure l'Autorizzazione integrata ambientale chiede al colosso dell'acciaio uno sforzo da 3 miliardi di euro che non può sostenere

Matteo Rigamonti
19/10/2012 - 18:45
Ambiente, Economia
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Il doppio abbraccio delle procure unite e dei burocrati dell’Unione europea rischia di soffocare l’Ilva di Taranto. Con la benedizione del governo Monti. La nuova Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, in via di definizione in queste ore e necessaria per garantire la continuità della produzione di acciaio negli altiforni, infatti, chiede al gruppo Riva uno sforzo che esso non sembra in grado di sostenere. Tre miliardi o forse più per rimettere a nuovo gli impianti sono troppi anche per loro. E così si spiega la ventilata ipotesi di lasciare Taranto, per ora rientrata. Ma procediamo con ordine.

PERCHE’ NON PIACE. È attesa nei prossimi giorni la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto contenente la nuova Aia, anche se il testo sottoscritto ieri al ministero dell’Ambiente (dopo l’assenso dei ministeri dello Sviluppo economico, Salute, Interni e Lavoro), non sembra per nulla piacere al presidente dell’Ilva Bruno Ferrante e al patron del gruppo Emilio Riva. L’Autorizzazione, infatti, secondo le indiscrezioni di queste ore, chiederà all’Ilva di ridurre la produzione di acciaio a 8 milioni di tonnellate l’anno e di abbattere le emissioni del 60 per cento. Oltre che di elaborare in due mesi i progetti per la copertura dei parchi minerari, la fonte principale di inquinamento a causa del rilascio delle polveri da parte dei minerali, e di realizzarli in tre anni. Il tutto, per un costo complessivo che potrebbe oscillare tra i 3 e i 10 miliardi di euro. Per farlo, oltretutto, la via imposta all’Ilva è quella dell’adozione forzata e anticipata al 2012 delle best overall technique che la Commissione europea chiede di adottare ai produttori di acciaio a partire dal 2016, mentre in Europa c’è già chi chiede di posticipare la data al 2020.

OCCORRONO REGOLE CERTE. Secondo diversi esperti di processi di produzione industriale dell’acciaio, è giusto chiedere l’abbattimento delle emissioni all’Ilva (che peraltro sono in corso di diminuzione costante già da quando il Gruppo Riva l’ha rilevata), ma non è giusto obbligare l’azienda a percorrere una strada che potrebbe comportare oneri eccessivi, senza offrire le adeguate garanzie. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la capacità di spesa per investimenti dell’Ilva è stimata intorno a 1,5 miliardi di euro, nemmeno tutti impiegabili nel piano di messa in sicurezza ambientale degli impianti. È per questo che la proprietà aveva elaborato un piano da 400 milioni di euro che prevedeva la chiusura di due batterie delle cokerie anziché quattro, la costruzione di barriere laterali e di impianti per “docciare” i minerali. Ma la procura di Taranto l’ha bocciato. Non era forse una soluzione definitiva ma poteva essere un primo passo.

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UN’ALTRA INDAGINE. Mentre l’Italia intera è in apprensione per le sorti dell’Ilva, che – vale la pena ricordarlo – dà da lavorare a quasi 20 mila persone (12 mila solo nello stabilimento di Taranto), un nuovo problema emerge all’orizzonte. Riva e i direttori finanziario e fiscale dell’azienda, secondo quanto riportato oggi dal Corriere della Sera, hanno ricevuto un avviso a conclusione delle indagini dalla Procura di Milano in cui viene contestato loro di aver frodato il fisco per un importo pari a 52 milioni di euro, creando elementi passivi fittizi per pagare meno tasse. Ma l’azienda siderurgica ritiene di aver già trovato un’intesa con il fisco, collocando le operazioni contestate tra le ”ottimizzazioni fiscali”. Ora non resta che attendere la presentazione della nuova Aia, sperando che il ministro dell’ambiente Corrado Clini sappia tenere in debita considerazione il bene della gente di Puglia e dell’Ilva.

@rigaz1

Tags: aiaBruno Ferrantecorrado clinigruppo RivaIlvaIlva di Taranto
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