
La notte de “la Repubblica”
Nel 1984, mediatore Enrico Cuccia e complice «il tradimento dei Formenton», salva la Mondadori (finché dura). All’inizio degli anni Novanta, salva la Repubblica e L’Espresso da Silvio Berlusconi (rasserenando Eugenio Scalfari, storico direttore del primo, e Carlo Caracciolo, presidente del Consiglio di amministrazione dell’intero gruppo editoriale). L’operazione con cui «certamente contribuimmo a salvare la libertà di stampa in Italia» gli permette di mantenere le due testate fedeli alla loro ispirazione (più volte definita liberal o di sinistra). Raffrenando a stento l’entusiasmo, ricorda di essere divenuto editore per puro idealismo, salvo poi lanciare in Borsa un’azienda editoriale enorme. Quindi bonifica l’Italia dal «clima che si respirava sotto il regno incontrastato del CAF» (Craxi, Andreotti, Forlani). Stoppa Craxi di petto e serve Mani Pulite con ottimo assist. Insomma, con san Paolo potrebbe dire: «Ho combattuto la buona battaglia». Buona per lui, cioè. È così che Carlo De Benedetti, editore puro (?), racconta le proprie res gestae nel libro-intervista auto-agiografico realizzato con Federico Rampini (Per adesso, Longanesi, Milano 2000). Quello in cui dice anche: «Sono assolutamente convinto che senza la Repubblica, L’Espresso e i giornali locali del gruppo la libertà di stampa si sarebbe assai ristretta in Italia e che il centro-sinistra non avrebbe mai vinto le elezioni». Eppure qualche crepa la sua corazzata editoriale comincia a evidenziarla. Altolà ai big, in redazione democrazia solo teorica, chi non si piega alla voce del padrone per delle quisquiglie viene cacciato e mal gliene incoglie a chi osa lasciare la sua onorevole società. Ciononostante, fra un favorino ricevuto e uno fatto al governo delle Sinistre, l’Ingegnere continua a incassare mentre i suoi giornali perdono e i suoi stipendiati si guardano attorno. Ecco i dettagli.
Storie di autentica epurazione
1) Acquistato a caro prezzo dal CorSera, Giuseppe D’Avanzo, è oggi uno dei tre vicedirettori di la Repubblica: lui che, da campione delle inchieste di Tangentopoli, chattava al telefono rosso con Tonino Di Pietro e da infallibile segugio inchiodava gli uomini della cosiddetta prima repubblica con notizie sempre fresche made in Procura. Ma sulla strada non per Damasco, bensì per Belgrado si è fermato: mentre ficcanasava nello scandalo Telekom-Serbia, qualcuno deve avergli ricordato che quella pista portava a un mare (Adriatico) di guai giacché al governo c’era e ancora c’è l’Ulivo, non il Berluska. Forse nella confusione creata dalla presenza di Lamberto Dini (uomo per tutte le stagioni e ministro per tutte le maggioranze) e con la nobile balla di non voler favorire la Cia, non se n’è fatto più nulla. Solo che il Giornale ci ha preso gusto e, con Paolo Guzzanti, ha scoperto che svariati sacchi di danari e di sterco puntellavano un’operazione da grande mafia statale.
2) I democratici illuminati dei media di regime chiamano i gendarmi per allontanare un giornalista e i colleghi scioperano per difenderlo. È la Repubblica. Un suo collaboratore non regolarizzato vuole, come consuetudine, accedere alla redazione per questioni organizzative, ma per impedirglielo i capi telefonano alla polizia. I colleghi indignati scendono in strada per manifestargli solidarietà in mezzo ad imbarazzati agenti di pubblica sicurezza e quindi lo scortano sin dentro gli uffici. Il Comitato di redazione spiega così ai lettori di un quotidiano che il giorno seguente non è uscito per via dello sciopero indetto seduta stante: «La redazione di Repubblica condanna i metodi polizieschi. Diffida l’azienda dal perpetuare un clima di costante violazione delle relazioni sindacali, che è alla base di episodi del genere. I giornalisti di Repubblica chiedono l’assunzione del collega Pietro D’Ottavio come elementare atto di giustizia». E parla di «rapporti sindacali estremamente deteriorati» di cui «porta la completa responsabilità l’azienda, per la sua assoluta chiusura a trattare sull’organizzazione del lavoro e sul precariato». Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, dice: «Esprimo la solidarietà della Federazione della Stampa e mia personale al collega Pietro D’Ottavio ed alla redazione del quotidiano che ha scioperato per protestare contro questo sopruso. Il Sindacato dei Giornalisti giudica molto grave il comportamento della società editrice de “La Repubblica” che ha impedito l’ingresso al giornale, anche con lo sconcertante ricorso alla forza pubblica, di un collaboratore storico della redazione romana. Il collega, Pietro D’Ottavio, messo alla porta collabora da oltre dieci anni alla “Repubblica” senza avere mai ottenuto un rapporto di lavoro con le necessarie tutele contrattuali. Una situazione insostenibile per l’intero mondo della comunicazione e che vede alla “Repubblica” un duro scontro tra l’azienda ed il comitato di redazione».
3) Incidente di (mal)costume, stavolta: su queste stesse pagine l’ha riferito il nostro, e un tempo anche de L’Espresso, critico enologico Paolo Massobrio. Epurato, esattamente come il suo pigmalione Edoardo Raspelli, forse la più nota firma dell’enogastronomia italiana, per aver dato un voto non troppo alto al ristorante preferito dal bel Carlo Caracciolo. Anche i ricchi invecchiano.
4) E a tutto ciò s’aggiunge quatto quatto (giacché ripreso da pochissimi) lo scontento espresso dal presidente onorario della Fiat Gianni Agnelli (guarda come a volte sono strani i casi della vita; eterogenesi dei fini si dovrebbe dire, se si volesse scomodare addirittura Giambattista Vico). Grande testimonial dell’Ulivo all’inizio della legislatura, oggi dichiara a Panorama: «Con Rutelli […], la loro sconfitta si tinge di ridicolo». Parla dell’Ulivo. In altri tempi ci avrebbero fatto il titolo se non altro i giornali di Casa Fiat. Libero di sabato 21 aprile ricorda intanto che L’Espresso è «in rosso di almeno sette miliardi» (così l’amministrazione al Cdr del settimanale): non è che per Marco Benedetto, amministratore delegato del gruppo editoriale, sia tempo di migrare?
Nessuna pietà per gli ex
Con un corsivo anonimo pubblicato venerdì 20 per stigmatizzare con il vetriolo l’intesa fra Pirelli ed e.Biscom, la Repubblica ha pestato i piedi a un ex collega, Sergio Luciano, ora direttore del quotidiano telematico Il Nuovo.it di Lucia Annunziata (altra gloriosa “ex” resasi autonoma dalla casa madre debenettiana). E così Luciano ha reagito: «La tesi sviluppata è questa: avendo ceduto alla Pirelli l’un per cento del capitale della loro e.Biscom, Micheli e gli altri […] — pur facendo le mostre di sacrificare i loro interessi a quelli dell’azienda — in realtà sono stati ben lieti di intascare quattrini alla prima occasione. Altro che convinti e dediti uomini d’impresa, sono solo dei furbacchioni. La verità è l’esatto opposto. e.Biscom è a tutt’oggi in Europa la società del Nuovo Mercato che ha il più lungo “lock-up” (sei anni, scadenza 28 luglio 2005) e sulla più alta percentuale del capitale di costituzione (90 per cento) sottoscritto dai partner tecnici. La vendita effettuata mercoledì riguarda l’un per cento sul complessivo 10% che si è reso disponibile all’indomani del 1° aprile scorso, è stata effettuata ai blocchi e a vantaggio di un unico compratore stabile — la Pirelli — che ha accettato di pagare un premio del 10% sui corsi di Borsa ed acquistando ha dichiarato di avere un piano strategico quinquennale da sviluppare con e.Biscom. […] Ma tant’è: la satira ha i suoi diritti, tra cui quello di travisare la verità. ilNuovo, per esempio, ha dedicato un’intera giornata alla satira, il 1° aprile; altri non si formalizzano sul calendario. Quando scappa di satireggiare, lo fanno, anche nei giorni feriali: come usano da sempre i buffoni di corte, per far divertire il loro Re. E quindi, oltre a segnalare l’articoletto di oggi, vale la pena di suggerire alle penne satiriche di Repubblica un altro spunto di ancor più sicuro effetto, finora — salvo distrazioni — mai colto su quel giornale. Titolabile, come anticipiamo qui, “Il sacrificio di Carlo De Benedetti”. […] È la storia […] della Cdb Web Tech, ovvero “Carlo De Benedetti Web Tech”. Molto divertente, a voler satireggiare. È un’azienda con 11 dipendenti che capitalizza in Borsa 1350 miliardi, una sorta di fondo chiuso di partecipazioni azionarie al quale, come l’Ingegnere sottolineò presentandolo, “ho dato le iniziali del mio nome”. De Benedetti ottiene la quotazione della neonata società tredici mesi fa (il 20 marzo 2000), scindendola dalla sua ex-immobiliare Aedes, una scatola societaria già quotata: i titoli della nuova entità s’impennano nei primi giorni fino al 98% raggiungendo una capitalizzazione di 14 mila miliardi. In quel momento, la quota azionaria dell’Ingegnere è del 57%; non avendo vincoli di lock-up, nei primissimi giorni di contrattazioni borsistiche, vende di colpo il 5%: intasca circa 300 miliardi in tre giorni, si direbbe in termini evangelici. Poi, il prezzo inizia a precipitare, dai 76 euro del primo giorno scende fino a quota 12, oggi non tocca i 7 euro, con un ribasso superiore al 90%. Una delle più colossali e rapide distruzioni di valore della storia della Borsa italiana. Che spasso, no? Non è mai capitato finora di leggere questa storia su “La Repubblica”».
Sul viale del tramonto?</b
Si consola, intanto, Ezio Mauro, direttore (un po’ ingrigito sotto l’ombra del nume tutelare) del quotidiano di Piazza Indipendenza, che filosofeggia a suon di eccedenti e imbarazzantissimi “io”, dispensando a piene mani e il predicozzo domenicale e la rubrica del Venerdì di Repubblica. Mentre gli danno manforte il troppo precocemente male invecchiato Curzio Maltese (che scrive di vecchietti e gli danno noia i giovani), il sempre brillantemente livoroso Giorgio Bocca e il lievemente ingrippato filosofo Umberto Garimberti. Nel complesso, è difficile dire cosa covi dietro l’angolo l’un tempo Numero Uno della nuova editoria, ora che per raccontare il problema italiano del calo demografico (tema che pagliuzze come Tempi hanno esposto un anno fa) deve ricorrere alle traduzioni da Newseek. L’ultima in ordine cronologico porta la firma di una giornalista statunitense inviata speciale ai giardini pubblici di Roma per incontrare una povera nonnetta che deambula alquanto sconsolata con un solo nipotino, simbolo dell’Italia dei figli unici… E pensare che la sede romana di la Repubblica sta a due passi proprio da quel giardino. Ma forse Mauro non ha più redattori da mandare in giro a raccontare la povera vecchia (a tutti gli effetti) Italia dopo l’avvenuta Rivoluzione Gloriosa delle manette, la nascita dell’editoria secondina di Micromega e l’Epoca di un Ulivo che somiglia più a un cipresso (un viale del tramonto già trasformato in rimembranze). E allora Newsweek, a cui fa da spalla l’intervista al figlio unico dell’unico comico italiano da Nobel, la cui opera il compassatissimo The Wall Street Journal del 13 ottobre 1997 ebbe a definire «un preconcetto latrare e lottare di cani contro il cattolicesimo». Quel giorno, però, l’ufficio acquisti diritti di traduzione de la Repubblica era chiuso.
Fine di un’epoca?
Forse. (Magari). L’idea la lanciò qualche anno fa Umberto Eco (negli Stati Uniti l’hanno riciclata alcuni campioni della Hollywood liberal temendo la vittoria di George W. Bush jr., senza però avere poi il coraggio di farlo): se la Casa delle Libertà dovesse vincere le prossime elezioni, qualche nostro compatriota si “dimetterà da italiano”. Può darsi. Ma, mentre la grancassa dei regimi leninista e stalinista Vladimir V. Majakovskij componeva odi al passaporto sovietico (dopo aver licenziato, nel 1918, un Mistero buffo che tanto ricorda ancora Dario Fo) e il “proscritto” Ezra Pound giurava fedeltà alla Costituzione federale ogni volta che gli rinnovavano quello statunitense, i campioni nostrani di quello che nel 1969 Julien Benda chiamò «il tradimento dei chierici» (Il tradimento dei chierici. Il ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, trad. it. Einaudi, Torino 1976) — e che bene hanno descritto Thomas Molnar e Paul Hollander rispettivamente in Il declino dell’intellettuale del 1961 (trad. it. Edizioni dell’Albero, Torino 1965) e in Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba del 1981 (ed. it. accresciuta, il Mulino, Bologna 1988) — molto probabilmente sposteranno solo conti correnti e masserizie varie in più comode partibus. Quando la barca affonda, la scialuppa di salvataggio (o la barca a vela) per i Grandi Timonieri è sempre pronta da un pezzo. Uno il coraggio, se non ce l’ha, mica se lo può dare. Assolutamente diversa, invece, è la condizione dei rematori e dei mozzi: quelli che restano per essersi in lunghi anni e decenni fidati delle promesse da marinaio fatte dai capi e dagl’Ingegneri.
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