
La Nato guarda ad Est
In verità, di Queens ce ne sono due. Il primo è il quartiere arcipelago che l’East River separa da Manhattan, di cui è cugino povero ed invidioso, poiché nella loro galoppata edilizia i grattacieli si sono fermati sull’altra sponda del fiume.
A ognuno il suo quartiere È il Queens dei sogni americani a rate, quartiere di milioni di impiegati, di spazzini, di giovani in cerca di carriera, che ogni giorno raggiungono Manhattan sulla metropolitana dei graffiti e degli accattoni. Un quartiere su misura umana, ombelico di New York, depositario dei segreti del personale di servizio dei ricchi; la residenza dormitorio delle segretarie, delle estetiste, delle commesse: la frontiera invisibile che divide quelli che hanno da quelli che vorrebbero avere. Poi c’è l’altro Queens, punteggiata qua e là da sinagoghe, da minareti, da chiese ortodosse russe e biancheria napoletana, stesa ad asciugare. Ed è il Queens che accetta da sempre le nuove immigrazioni, il quartiere che all’inizio del secolo aveva dato una mano ad Ellis Island, quando le navi scaricavano dalla vecchia Europa valigie di cartone e famiglie analfabete. Questo è il posto dove i newyorchesi vengono a cercare una pizza italiana, le ciambelle degli ebrei, un bazar russo, perdendosi nelle lingue straniere dei mercatini, misti come le piazze di Babele. E dove, alla sera, fanno ritorno i taxisti israeliani, irlandesi e polacchi, dopo aver spento il tassametro, accellerando sui ponti, pregustandosi il sapore caldo della loro cucina. Ed è anche il paradiso della musica. La vera vita notturna, per chi ama il ritmo, il ballo e la felicità di chi si lascia trascinare su una pista da ballo come se fosse una rete piena di pesci, è proprio in questo quartiere arcipelago dove nessuna minoranza rinuncia al proprio retaggio e dove la notte comincia tardi e finisce all’alba, col fischio violento della metropolitana.
Tornando un po’ a casa Qui la notte è fatta per la malinconia di un Paese lasciato per motivi politici, per soldi, per cercare il sogno americano; qui, come nella Buenos Aires anni Trenta, si balla per tornare indietro nel tempo. E se stavolta non è il tango, è comunque la soca di Trinidad, sincopata e molle, è il merengue dei dominicani, che sa di desiderio e di pelle leggermente sudata, di scarpe lucide e di lacca sui capelli. E poi ci sono i figli degli immigranti irlandesi, che tornano come per magia ad imparare le danze dei loro nonni in un pub intriso di birra e facce con le efelidi, di donne con le caviglie grosse e il cuore ancora legato alle vecchie stradine di Dublino o di Belfast. Oppure sono i figli degli immigranti del sud est asiatico, che tornano ad imparare l’Hindi nel piccolo cinema di Jackson Heights, cinquemila a biglietto. E a camminare, la sera, per le stradine ancora calde dal grande sole, s’incontra un coreano, in un abito a doppio petto di poliestere, che con gli occhi sottili stravolti di nostalgia canta nella sua lingua natia con un karaoke in uno studio musicale di Flushing, accompagnato da una grande folla; oppure un tavolo di uomini stanchi e ubriachi di ricordi, che gettano la testa all’indietro e cantano in coro alcuni brani di rebetika, il blues degli immigranti greci. E camminando s’incontrano immagini che ci portano a Lima, a Lahore, a Port au prince e a Seoul, in un mappamondo di cemento, traffico e venditori di hot dog. In queste bettole, pub e ristorantini africani l’America si specchia in quel che aveva sognato di diventare: il pentolone di razze ed etnie unite sì da una bandiera, ma ancora capaci di ricordarsi di quel piccolo mondo antico che li ha impressi, per sempre, con le immagini più vere di un mondo che diventa sempre più piatto ed uguale. Qui s’incontra l’americano che non appare nelle statistiche, che si rifiuta di vivere le sue notti in Internet, che snobba la cultura televisiva, che si rifiuta di regalare anche il cuore ai grattacieli di Manhattan. Ed è una ribellione che scalda il cuore, che ci ricorda che forse non è in fondo vero quello che aveva detto un giorno Walt Whitman, che a casa non si può mai tornare. Ci tornano, almeno per due ore, gli irlandesi del pub Breffni, a Sunnyside che imitano i ballerini della famosa River dance. O i colombiani, facce da mezzi incas e camicie di Ralph Lauren, che entrano a testa alta, con le donne sotto braccio da Chibcha, night club e ristorante di cibi speziati sulla Roosevelt avenue, nel cuore del quartiere ispanico di Jackson Heights. Le tovaglie sono a quadretti bianchi e rossi, il vino in caraffa, la musica comincia dopo mezzanotte e le donne sembrano ballerine del carillon, mentre si sfiorano roteano al ritmo del merenghe, del nuovo hip hop, della salsa. A Plaza Garibaldi si ritrovano i messicani, si siedono ai tavoli e ordinano una lattina di birra Tecate e un panino di patate e salsiccia. Alla parete c’è una raffigurazione della loro grande santa protettrice, la Madonna della Guadalupe, e appena si spargono le prime note della musica salsa, di ranchera o di cumbia, sotto i tavoli le loro ginocchia cominciano a tremare. A pochi isolati c’è il quartiere asiatico; con l’arrivo della sera si chiudono i negozietti dorati, coi sari di tutte le misure, e i giovani commessi corrono al cinema Eagle, ex sala di pornografia, oggi diventato sede del cinema di Bollywood, come vengono chiamati i film di Bombay. Poi, quando escono, s’addentrano nella casba del Queens, sentendo la musica africana di qualche ristorantino eritreo, davanti al quale c’è sempre un gruppetto di africani che balla. E in lontananza passa il metrò, suona il clackson un tassista, si sente la sirena della polizia: come se tutta New York volesse unirsi a questa musica, a questo melanconico folclore, nel tam tam notturno dei grattacieli che, vicini come sono l’uno con l’altro, hanno anche aver voglia di parlarsi, ogni tanto, dopo che gli uomini hanno finito di abitarli, in nome del dollaro e dei sogni di chi sente la musica solo nel ticchettio della Borsa, che sale, che sale, senza mai volare.
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