La medicina, la vita e il suo mistero. Riflessioni dopo l’approvazione del biotestamento

Di Felice Achilli
22 Gennaio 2018
La legge sul fine vita irrigidisce i rapporti tra medico, paziente e parenti/tutori, aumentando il rischio di conflitti ed è per questo potenzialmente dannosa

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Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’articolo che Felice Achilli, presidente di “Medicina e persona”, ha scritto sul sito dell’associazione.

Il contesto
Viviamo in un tempo difficile ed affascinante insieme, soprattutto in medicina.

Lo sviluppo straordinario della conoscenza e della tecnologia ha consentito di raggiungere risultati assolutamente positivi, ed inimmaginabili solo alcuni decenni fa. Nello stesso tempo ci scontriamo quotidianamente con una disponibilità di risorse, umane e terapeutiche, non illimitate che obbligano chi ha la responsabilità della gestione della cura, ad operare scelte di trattamenti che sempre più debbono essere non solo efficaci, ma anche proporzionati ed efficienti (sostenibili) per il sistema.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Lo sottolinea bene nel “Messaggio ai partecipanti al “Meeting Regionale Europeo della World Medical Association” sulle questioni del fine vita, Papa Francesco: “Le decisioni sono sottoposte al condizionamento del crescente divario di opportunità, favorito dall’azione combinata della potenza tecno-scientifica e degli interessi economici. Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura” (Roma 16-17/11/2017).

E’ esperienza di ogni medico, a qualsiasi livello operi, che la valutazione circa l’opportunità clinica di un trattamento terapeutico, dal provvedimento più semplice e meno costoso, sino ai farmaci e alle procedure a più alto costo, rappresenti una sfida quotidiana non semplice, soprattutto per la tipologia di malati che oggi giungono all’osservazione (ospedaliera e non), e che l’abbandono terapeutico, più che l’accanimento, rappresenti oggi il rischio maggiore.

Non è un caso che già nel 1983 Daniel Callahan dell’Hasting Center di NY affermava che “Il rifiuto della nutrizione può diventare, nel lungo termine, il solo modo efficace per assicurarsi   che un largo numero di pazienti  biologicamente  resistenti  venga effettivamente a morte. Considerato il crescente serbatoio di anziani resi disabili dall’età, cronicamente ammalati, fisicamente emarginati, la disidratazione potrebbe diventare a ragione il non trattamento di elezione”. In sanità dare prevalenza al solo criterio, puramente economico dell’utilizzo del minimo di risorse per rispondere al maggior numero di bisogni, risulta inadeguato e potenzialmente nocivo: il rischio di sottomettere la salute all’economia è oggi più che un problema teorico.

Tale esigenza “economica” costituisce un elemento non secondario nelle scelte che riguardano proprio quella popolazione che consuma la più elevata percentuale delle risorse sanitarie.

La relazione di cura: la domanda del Paziente e la professione del medico
“La domanda di salute è sempre anche una domanda di salvezza, cioè una domanda di aiuto non solo al superamento del limite biologico, ma anche allo scioglimento del proprio enigma di uomo: un “io”, un essere che esiste, ma che non ha in sé il principio e quindi il potere del suo esistere. Il paziente domanda di durare, domanda cioè non solo la guarigione, ma anche un significato nell’esperienza della sua malattia, e chiede di essere accolto, di essere definitivamente amato. (Appunti Incontro SE Card A Scola Policlinico di Milano 22/4/2013).

Il malato dovrà fare lui il proprio cammino, dovrà lui affrontare il suo problema, personalmente, secondo le possibilità concesse dalla malattia che ha, ma egli pone a chi lo assiste – a tutte le persone che entrano in rapporto con lui – domande di aiuto, di cura, fino alla ineludibile domanda sul significato di ciò che gli accade. Per stare di fronte alla sofferenza degli uomini occorre mettersi in gioco personalmente tenendo presente anche questa domanda ultima, occorre, proprio perché la cura sia adeguata, che la medicina non dimentichi questo livello dell’umano che emerge nell’esperienza del dolore. Per questo l’accanimento terapeutico così come l’abbandono terapeutico, sono atteggiamenti inadeguati, innanzitutto perché riducono la domanda del malato: tentano di soffocarla o con l’attivismo titanico o con il sottrarsi alla relazione di cura.

Lo ridice Papa Francesco nello stesso messaggio: “Quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità». È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo”. (Roma 16-17/11/2017).

Tutto questo rimane drammatico, richiede continue decisioni e verifiche, e va affrontato caso per caso. Cercare di “normare” una relazione di cura  con una legge,  più che contribuire a riaffermare la necessità di un consenso sempre più consapevole del Paziente sino alla possibilità di rifiutare o interrompere i trattamenti, finisce per sancire una frattura insanabile tra chi cura e chi è curato, legati (invece) non tanto da un “interesse” se pur asimmetrico, ma dalla stessa domanda di significato, il cui affronto è decisivo per vivere ciascuno il proprio percorso umano.

La sfida per la professione: esserci
C’è come una tentazione mortale a cui, chi sceglie la cura dell’uomo malato come propria “missione” non deve cedere: la presunzione di autoreferenzialità della medicina, e la sostituzione del principio della responsabilità con quello della regola, con conseguente riduzione del medico ad applicatore di protocolli e di prestazioni tecniche.

Negli ultimi 20 anni ciò che è veramente cambiato è l’idea che ogni aspetto del comportamento individuale (soprattutto là dove scotta, perché tocca l’etica, la responsabilità, la qualità dell’organizzazione e la qualità degli esiti del lavoro) debba essere sottomesso ad una regola, convinti che ciò sia l’unico modo di tutelare la bontà dell’agire umano. Ne deriva un eccesso normativo, a tutti i livelli, fino ad implicare la giurisprudenza di cui la legge sul biotestamento è solo l’ultimo esempio.

Ma la realtà clinica ci chiede ben altro. La sfida che ogni giorno ci viene proposta dall’incontro con l’uomo sofferente ci costringe ad esporci, a prendere una posizione, ad entrare realmente in rapporto con l’altro. Scriveva T. Eliot: “Essi (gli uomini) han sempre cercato di sfuggire dall’oscurità interiore ed esteriore, fino a sognare sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono”.  (da “I cori della Rocca)

Ma Papa Francesco indica un percorso che sfida ognuno, indipendentemente dal suo “credo”: “occorre dunque tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile, come chiaramente appare nella pagina evangelica del Samaritano (cfr Luca 10, 25-37). Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. Ciascuno dia amore nel modo che gli è proprio: come padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, medico o infermiere. Ma lo dia! E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine”.

Non crediamo che la legge approvata in Parlamento cambi sostanzialmente la vera sfida che le professioni sanitarie hanno davanti a loro, non solo relativamente alle cure di fine vita, ma in generale nella relazione medico-paziente: la necessità di un’esperienza umana integrale nel proprio lavoro.

È innegabile tuttavia che essa inutilmente irrigidisce i rapporti tra medico, paziente e parenti/tutori, aumentando il rischio di conflitti ed è per questo potenzialmente dannosa. A tale proposito sarebbe opportuno almeno introdurre, come sostenuto dagli ambienti cattolici e riconosciuto dalla stessa Ministro della Salute On. Lorenzin, l’obiezione di coscienza nel caso il medico non sia d’accordo con le disposizioni di fine vita o con le decisioni dei parenti/tutori.

Invitiamo tutti i professionisti a compiere ogni sforzo per riportare l’attenzione di tutti sulla vera natura del rapporto che costituisce tutte le professioni sanitarie (di cui il fine vita è solo una parte), perché solo in tale relazione meglio possono essere prese tutte le decisioni nella ricerca, umile, del vero bene per ogni uomo.

Dr Felice Achilli
Presidente Medicina e Persona

Foto da Shutterstock

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