La “lunga marcia” di Hong Kong per liberarsi dall’oppressione della Cina
Dopo i cannoni ad acqua, i gas lacrimogeni, i proiettili di gomma e quelli urticanti, ora la polizia di Hong Kong ha cominciato a sparare con le armi da fuoco per reprimere le proteste che da tre mesi sconvolgono la Regione amministrativa speciale cinese. Durante gli scontri del 25 agosto a Tsuen Wan, riporta l’Associated Press, non ci sono state vittime e l’utilizzo di proiettili veri, ha dichiarato la polizia in un comunicato, è stato giustificato dalle azioni violente dei manifestanti. Nessuno è morto ma l’episodio è un chiaro segno che la situazione sta fuggendo di mano alle forze dell’ordine. Nonostante questo, la governatrice Carrie Lam non sembra intenzionata a rispondere alle richieste che da 12 settimane i cittadini portano in piazza.
LA LEGGE SULL’ESTRADIZIONE
La prima oceanica protesta a Hong Kong è andata in scena il 12 giugno, quando un milione di persone sono scese in piazza per chiedere al governo di ritirare in modo definitivo la legge sull’estradizione proposta per la prima volta dal governo filocinese della città nel febbraio 2019. La legge spaventa l’intera popolazione – dai giovani ai professori, dai liberi professionisti ai potenti finanzieri – perché se approvata permetterà a Hong Kong di estradare in Cina tanto i residenti quanto gli stranieri che Pechino considera «criminali». In città risiedono centinaia di persone ritenute «scomode» dal regime comunista e il timore più che giustificato della popolazione è che la legge permetterà a Pechino di condurre una campagna repressiva senza precedenti in un territorio che, almeno teoricamente, dovrebbe restare autonomo fino al 2047.
La governatrice Carrie Lam ha ignorato le richieste della popolazione, spingendo pochi giorni dopo a protestare ben due milioni di persone, la partecipazione più vasta della storia di Hong Kong, su un totale di sette milioni di residenti. Al di là di alcune frange violente, le manifestazioni sono state pacifiche ma la polizia ha utilizzato una violenza senza precedenti per reprimerle. Il 15 giugno Lam ha sospeso la legge dichiarandola «morta», ma si è rifiutata di ritirarla in modo definitivo, probabilmente perché Pechino non l’ha autorizzata, spingendo i cittadini a intensificare le proteste.
LE CINQUE RICHIESTE DEI MANIFESTANTI
Il Fronte per i diritti umani civili, che comprende più di 50 gruppi pro democrazia e che ha lanciato le proteste, ha inoltrato cinque precise richieste al governo: ritirare la legge, ritrattare il modo in cui sono state definite le manifestazioni, «sommosse», liberare le centinaia di studenti arrestati, avviare un’indagine indipendente sulle violenze ingiustificate della polizia e permettere alla popolazione di votare per le elezioni del Consiglio legislativo e del governatore a suffragio universale (richiesta la cui soddisfazione non può prescindere da Pechino).
L’ASSALTO A YUEN LONG
Il governo di Hong Kong non ha accolto nessuna delle cinque richieste e per questo le proteste si sono protratte per tutta l’estate, con alcuni eventi principali. Dopo l’annuale marcia dell’1 luglio, giorno in cui si celebra il ritorno della città alla Cina e che gli attivisti usano per chiedere piena libertà e democrazia, alcuni giovani hanno fatto irruzione nel Consiglio legislativo, imbrattando i muri e sfigurando la bandiera.
Il 21 luglio, mentre si teneva una manifestazione pacifica a Sheung Wan, un gruppo di uomini armati vestiti di bianco, secondo i giornali della città pagati dalle mafie di Hong Kong, hanno assaltato i manifestanti pacifici alla stazione di Yuen Long. Nessuno è stato arrestato o incriminato per le violenze. Il 5 agosto 350 mila persone hanno partecipato a uno sciopero generale e l’11 agosto, in nuove proteste, la polizia ha ferito gravemente a un occhio da distanza ravvicinata una donna che portava soccorsi ai manifestanti.
I SIT-IN ALL’AEROPORTO E LA “HONG KONG WAY”
La donna, che rischia di perdere l’occhio, è diventata uno dei simboli della protesta e ha scatenato sit-in pacifici all’Aeroporto internazionale di Hong Kong, che hanno spinto l’autorità a cancellare centinaia di voli tra il 12 e il 14 agosto. Il 18 agosto, a due mesi dalle prime proteste, di nuovo 1,7 milioni di persone sono scese in piazza per reiterare al governo le cinque richieste del movimento trasversale. Ancora una volta la governatrice Lam ha fatto orecchie da mercante.
Venerdì scorso, 210 mila persone, soprattutto giovani, hanno formato una catena umana lunga 60 km in tutta la città. La “Hong Kong Way” è una riedizione della “Baltic Way” di 30 anni fa, quando circa due milioni di persone da Estonia, Lettonia e Lituania formarono una catena umana lunga 680 km domandando l’indipendenza dall’Unione sovietica nel 1989.
CINA: «ELIMINATE LE MERDE DI TOPO»
Alle proteste più popolari e variegate che Hong Kong abbia mai conosciuto nella sua storia, Pechino ha reagito dapprima con indifferenza, poi alzando sempre di più i toni. Se infatti in principio il partito comunista si è limitato a ribadire che Hong Kong è parte della Cina e lo sarà sempre, e che quello che vi succede è una «questione interna» su cui il mondo non può mettere becco, è presto passato alle maniere forti.
Prima ha definito i manifestanti addirittura «terroristi», bollando le proteste anti-estradizione come «rivolte», proprio come aveva fatto a suo tempo nel 1989 per le manifestazioni di Piazza Tienanmen. Poi ha cominciato a diffondere attraverso i media di Stato notizie false, sostenendo che le proteste sono manovrate da «mani nere e straniere» e auspicando in un reportage in prima serata che «siano eliminate queste merde di topo».
LA “LUNGA MARCIA” DI HONG KONG
Successivamente, per intimidire i giovani, il governo di Pechino ha ammassato truppe e carri armati a Shenzhen, a pochi chilometri da Hong Kong, per addestrare i soldati in esercitazioni antisommossa e invitando i manifestanti a «tornare a casa». La settimana scorsa, come riportato dal Financial Times, i giornali del partito comunista sono arrivati ad accusare pubblicamente quattro eminenti personaggi del movimento pro democrazia di Hong Kong di essere al soldo di potenze straniere. Definiti la “Banda dei quattro”, in riferimento ai quattro membri del partito comunista che guadagnarono potere durante la Rivoluzione culturale e poi furono accusati di tradimento verso Mao Zedong e la Cina, Anson Chan, Jimmy Lai, Martin Lee e Albert Ho (recentemente intervistato da Tempi), sono stati tacciati di essere «traditori della patria».
«POTREBBE FINIRE COME A TIENANMEN»
Se la legge sull’estradizione venisse approvata, tutti e quattro i residenti di Hong Kong potrebbero essere arrestati e processati in Cina. A conferma che la manifestazioni popolari hanno piena ragion d’essere e che tutto l’Occidente deve schierarsi a fianco della popolazione di Hong Kong, che sta faticosamente percorrendo la sua Lunga marcia per liberarsi dall’oppressione di Pechino. Come riportato da AsiaNews, padre Carlos Cheung, salesiano, ha dichiarato a centinaia di giovani fedeli durante un raduno di preghiera prima di una delle grandi manifestazioni di agosto al Victoria Park:
«Dobbiamo ricordarci che questa è una battaglia a lungo termine. Ognuno di noi ha una responsabilità: risvegliare le persone attorno a noi. Cari sorelle e fratelli, dov’è la nostra coscienza? Come può la Chiesa offrirsi come guida senza esprimere un giudizio morale su questo? Oggi non è questione di differenti visioni politiche. Qui si tratta di persone che vengono abusate dal governo, falsamente arrestate dalla polizia, ingiustamente perseguite dal Dipartimento di giustizia, minacciate col terrore bianco. Come cristiani siamo molto familiari con le parole di giustizia. Scegliamo allora di rimanere in silenzio mentre il mondo ha bisogno che noi alziamo la voce? Oltre che pregare, abbiamo bisogno di dire al governo che esso è nell’errore più pieno nell’insistere con questo atteggiamento. Ciò che noi stiamo difendendo in modo così caparbio è la dignità umana – la dignità di essere figli e figlie di Dio! Preghiamo Dio con le parole di Ester: “Mio Signore, nostro re, tu sei l’unico! Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te…”. Dobbiamo fermare la sofferenza causata da queste leggi irragionevoli e dall’oppressione dell’autorità. Il 4 gugno 1989 dei giovani sono stati massacrati in Piazza Tiananmen. La stessa cosa potrebbe succedere ancora ad Hong Kong. Per questo dobbiamo mostrare moderazione. Non dobbiamo sacrificare le nostre vita per questo regime malvagio, senza alcuno scopo. Che Dio ci benedica, benedica i nostri giovani e Hong Kong. Questa non è una battaglia per conservare. È una battaglia etica. Con la pace, la saggezza e snellezza, risvegliamo tutti, risvegliamo la Chiesa e il popolo del regno di Dio. Usciamo, con orgoglio, speranza e senza paura».
Foto Ansa
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