La leonessa trema

Di Sampognaro Marco
31 Agosto 2006
Una volta il simbolo di Brescia era il felino ruggente. Oggi i suoi abitanti vivono nel terrore di rapportarsi con gli extracomunitari

Brescia
Scene dal Brescianistan, uno. Piazza Duomo, su una panchina, due nordafricani con due ragazze, di cui una italiana. Si avvicina un venditore di rose pachistano, non si accorge subito della nazionalità dei due uomini. Quando se ne accorge, ha paura. Ma è troppo tardi per allontanarsi. «Hei, cosa pensi di Hina?» gli chiede uno dei due. «Hanno fatto bene, eh, a tagliarle la gola». E mima con un gesto eloquente. «Alle donne che non obbediscono bisogna fare così».
Scena due. Quartiere del Carmine. Un’operatrice sociale parla con un pachistano, colto, tre lingue, un buon lavoro. «Non vorrei mai che i miei figli diventassero come voi perché voi non credete a quello cui appartenete. Non siete degni di rispetto».
Scena tre. Ospedale Civile. Cristina, medico specializzando. «Ormai sono il 30 per cento dei degenti. Noi facciamo di tutto per curarli. Loro non pagano nulla. E non ti rispettano. Non rispettano gli orari. Non rispettano le diete. Non ti dicono la verità. E se sei una donna, si rifiutano anche di essere visitati. Non sono tutti così, certo. Ma quelli che non vogliono, come fanno a integrarsi?».
Scena quattro. Ersilia ha insegnato nel 2004 nella scuola media Mompiani, in via delle Grazie (la stessa via dove era andata ad abitare Hina Saleem). «Nelle classi gli stranieri sono superiori al 50 per cento. E c’erano 27 etnie diverse: pachistani, cinesi, indiani, bengalesi, albanesi, filippini. Come fai a integrarli? Qualche tentativo c’era, ma è difficile. Non potevi avere venti mediatori diversi. E soprattutto, integrarli a cosa?».
Se l’islam avesse in mente di conquistare l’Italia, città per città, la prima ad essere conquistata, probabilmente, sarebbe Brescia. è un’ipotesi di scuola: e tuttavia sarebbe Brescia. Qualsiasi bresciano conosce le possibili roccaforti: Il quartiere del Carmine, la zona della Stazione, corso Garibaldi e via Milano. Un “serpentone” che corre lungo tutto il centro storico, costellato di phone center, negozi cinesi, supermercati etnici. E poi l’enclave di Bovezzo, al nord, con lo storico residence “Prealpino”, centro di accoglienza (e ormai di residenza) per centinaia di immigrati, in prevalenza centrafricani. Si racconta che già negli anni Ottanta nelle tasche dei senegalesi fermati alla frontiera si trovassero dei biglietti con scritto “Prealpino-Bovezzo-Brescia”. La Leonessa d’Italia è oggi la terza provincia italiana, dopo Milano e Roma, per numero di immigrati: oltre 133 mila (dati Isme). Secondo Franco Valenti, responsabile dell’Ufficio stranieri del Comune, sono anche di più: 145 mila su una popolazione di 1 milione e 100 mila abitanti. E parliamo solo dei regolari: i clandestini sfuggono a qualsiasi stima, potrebbero essere trenta, quaranta, cinquantamila. Nella sola città vivono 25.700 immigrati, il 13,4 per cento della popolazione residente. Tenuto conto delle nascite e dei ricongiungimenti famigliari, la percentuale è arrivata al 20 nel 2005. E a differenza di Milano e Roma, si tratta di un immigrazione “di popolamento” e non di transizione. Vengono per starci. A Brescia, nel 2005, il saldo tra nascite e morti è stato positivo soltanto grazie agli immigrati.

Il sangue scorre in città
I numeri erano già noti. E anche i commenti di chi passava dalla città: «Ma qui siete pieni di stranieri». Noto era il degrado della stazione, nota la strana commistione senza integrazione del Carmine (dove ci sono anche alcune sedi dell’università). Quello che è cambiato, a Brescia, in questo agosto di delitti, è stata la percezione del fenomeno. Prima Hina Saleem, 20 anni, sgozzata e sotterrata dal padre a Sarezzo, in Valtrompia, a 20 chilometri da Brescia, perché aveva uno stile di vita troppo occidentale. Poi Elena Lonati, la 23enne soffocata e nascosta in chiesa dal sagrestano cingalese, e Aldo Bresciani, 72enne pittore ucciso da un amico marocchino. L’ultimo della serie è stato l’operaio pachistano Mohammed Ilias di 48 anni, accoltellato nella zona sud della città. Di questi, solo il primo riflette un conflitto reale tra cultura islamica e cultura occidentale.
Il susseguirsi di questi fatti di sangue, tutti con protagonisti immigrati, ha generato un’inquietudine diffusa. Il primo a parlare esplicitamente di «paura» è stato il filosofo Emanuele Severino sul Corriere della Sera: «Da anni non esco più dopo le otto di sera». Severino chiamava in causa la tradizione cattocomunista bresciana, certi atteggiamenti della Chiesa e anche la convenienza delle industrie, a cui la manodopera immigrata è necessaria. L’intervento non è passato inosservato. Le lettere ai quotidiani locali si dividono in due categorie; chi vuole più multiculturalismo e chi dice “basta con gli immigrati”. Tutti però sembrano d’accordo sul fatto che così non va. «è impossibile andare in stazione senza sentirsi in qualche modo in pericolo» spiega Stefano, avvocato con studio in via Gramsci, cui è capitato di assistere diversi extracomunitari. «E la situazione sta peggiorando. Il decreto flussi è diventato una sanatoria, con la promessa di accogliere tutte le domande presentate».

Il padre di Hina? Aveva le sue ragioni
Poi c’è comunità e comunità. I cingalesi sembrano ben integrati, e questo ha reso ancora più straniante l’assassinio di Elena Lonati. Anche senegalesi e ghanesi, salvo l’enclave del Prealpino, non danno particolari problemi. I più chiusi sono i cinesi: silenziosi e sconosciuti, hanno comprato la maggioranza delle licenze di ambulanti in centro, acquistano negozi in contanti, e hanno addrittura degli ospedali clandestini. Di nazionalità albanese o rumena sono le bande delle “rapine in villa” e delle carte di credito clonate. Marocchino era Mostafa Chouki, 35 anni, che nel 2004 si è fatto esplodere accanto a un McDonald’s alla periferia della città. Poi ci sono i pachistani: la comunità più numerosa in città, forse quella meno disposta ad integrarsi. Quella che, nel 2000, aveva bloccato piazza della Loggia per settimane con manifestazioni e disordini per ottenere i permessi di soggiorno negati. E alla fine li aveva ottenuti. Un’emittente locale, Brescia punto tv, ha intervistato alcuni membri della comunità all’uscita della Moschea di viale Piave, quella frequentata dal padre di Hina; quasi tutti giustificavano il gesto. Ma lo stesso portavoce della comunità, in una prima versione della dichiarazione ai media (poi corretta) aveva detto che se il padre aveva ucciso Hina aveva le sue buone ragioni.
Integrazione fallita? «Sì», risponde a Tempi Viviana Beccalossi, bresciana e vicepresidente della Regione Lombardia «perché nella migliore delle ipotesi creano insicurezza. E nella peggiore veri e propri scontri, come nelle ultime settimane». Quali sono le ragioni del fallimento? «Non c’è nessun tipo di reciprocità. Brescia e una certa cultura bresciana, temendo di essere tacciata di razzismo, ha fatto di tutto per assecondare il fenomeno, senza un reale confronto. Non è integrazione, è sottomissione. Per accoglierli dobbiamo annullare la nostra identità?».

«L’accoglienza non è solo utilizzo»
«Severino è stato realista a dire che si aveva paura» spiega il presidente locale della Compagnia delle Opere Graziano Tarantini. «Il sentimento è quello, i bresciani sono spaventati». Che fare? «Il multiculturalismo è fallito e il buonismo che domina in questa città ha fatto la sua parte». Ma le esigenze sono reali: lavoratori per le imprese, assistenti per gli anziani. «è innegabile. Il problema è: o questo si accompagna a un’accoglienza reale, cosciente di chi siamo, oppure ci sarà la rivolta sociale. In questo ci sta anche la regolazione dei flussi, la lotta ai clandestini, ma il problema è politico (di disegno della città) e culturale (l’accoglienza vera non è utilizzo e basta). Una proposta l’avevamo fatta anni fa: vincolare i permessi di soggiorno alla frequenza di un corso di formazione serio. Ma è rimasta inascoltata. O iniziamo un percorso nuovo, oppure i ghettizzati saremo noi».

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