La grande finzione

Di Alessandro Giuli
09 Novembre 2006
Nessuno vuole la Grosse Koalition. A parole. Ma sono già pronte le larghe intese per dare all'Italia un nuovo governo. Senza Prodi. E con l'assenso di Berlusconi

L’ipotesi grancoalizionista è al momento come un gioco di società fondato sulla dissimulazione degli attori sulla scena. Come un poker spericolato nel quale nessuno dei giocatori ha carte abbastanza alte per rischiare la puntata superba, né coraggio sufficiente per un bluff da brivido. Il tema però c’è, è centrale nei ragionamenti della vittima predestinata, Romano Prodi, e occupa i pensieri di maggioranza e opposizione. Anticipazione: salvo errori grossolani in Parlamento (sempre possibili, in particolare al Senato), nulla accadrà prima della prossima primavera. Perché c’è una Finanziaria da approvare entro dicembre e nessuno ha l’incoscienza di condannare l’Italia a un esercizio provvisorio dagli effetti disastrosi. Lo ha ricordato meditabondo anche Eugenio Scalfari su Repubblica. Siccome poi la manovra allestita da Vincenzo Visco (e firmata da Tommaso Padoa-Schioppa), per quanto negoziabile, passerà alla storia come un’iniziativa sanguinaria destinata a gonfiare oltremisura le casse del Tesoro, ai congiurati di centrodestra conviene semmai beneficiarne l’anno prossimo senza assumere paternità sgradite. Oltretutto, come ha ammesso Padoa-Schioppa in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, i “drastici tagli” dell’ultima Finanziaria di centrodestra, «una legge stranamente non elettoralistica», stanno regalando al Tesoro molto ossigeno.
I congiurati di centrodestra sono ovviamente Silvio Berlusconi (nella doppia veste del tribuno di piazza sempre pronto a un accordo “di sistema” se cade Prodi), Gianfranco Fini che con la sua An è l’ultimo arrivato nella stanza dei manovratori, e naturalmente i centristi di Pier Ferdinando Casini, oscillanti tra la tentazione entrista e la volontà di prenotare all’Udc la leadership di un’eventuale larga intesa. Quanto alla Lega di Umberto Bossi, sbraita come di consueto contro la partitocrazia romana, ma se la grande coalizione servisse al Cavaliere per tornare centrale nelle scelte di governo, il Carroccio sarebbe subito disposto a trattare l’appoggio esterno.
Ogni novità deve per forza maturare nell’Unione di governo. Lì va puntata la luce indagatrice. Ricominciamo da Prodi. Il presidente del Consiglio sa perfettamente che il nascituro Partito democratico può rivelarsi per lui una polizza assicurativa oppure un validissimo pretesto per detronizzarlo. è la ragione per la quale sta spingendo come un forsennato perché il programma dei lavori vada avanti spedito e con una coloritura ultraulivista. Per Prodi il Pd deve avere le fattezze di un contenitore vagamente antipartitico, fondato sulla tenaglia del popolo delle primarie – “una testa un voto”, senza segreterie e congressi provinciali a mediare la conta – combinato con il club dei professori cresciuti (come Prodi) alla corte di Nino Andreatta. A cominciare dal figlio Filippo, per culminare nel presidente dell’associazione di Gregorio Gitti, ultrà prodiano e genero di Giovanni Bazoli. Il piano prevede lo smembramento dei Ds e della Margherita, partiti già marginalizzati nelle politiche di governo e soggetti al grave rischio di scissioni interne. Al premier tutto questo può anche far comodo, purché i Popolari di Franco Marini non stravincano la sfida congressuale dei Dl contro Francesco Rutelli; e purché la Quercia accetti che la sinistra di Cesare Salvi (Socialismo 2000) e Fabio Mussi (Correntone) prenda il largo verso la Sinistra europea e post-comunista vagheggiata dall’unico leader in grado di sfiduciare Prodi in qualsiasi momento: Fausto Bertinotti.

Mandare avanti Rutelli e Fassino
La verità è che Prodi ha bisogno di Bertinotti più di quanto Rifondazione comunista trovi indispensabile trattare alla morte con il fronte riformista. E veniamo così ai riformisti rutellian-fassiniani e marinian-dalemiani, inchiodati da una verità tremenda pronunciata da Palazzo Chigi: «Senza di me non sanno dove andare». Non sbaglia il premier, perché lo spettro antiberlusconiano si tiene su per aria solo se continuerà a indossare la maschera del professore bolognese. Ma cosa succederà se davvero Berlusconi darà il proprio assenso alle larghe intese senza pretendere d’essere parte attiva nel consolato? Al tempo. Prima bisogna realizzare un concetto non secondario: Marini e D’Alema non amano la prospettiva grancoalizionista, ma prima o poi passeranno al contrattacco, non avendo alcuna intenzione di regalare a costo zero i rispettivi partiti e il timone politico del governo. Stanno usando Fassino e Rutelli come parafulmini e strumenti d’interdizione lungo il cammino prodiano.
I segretari di partito servono a questo: a proteggere certi movimenti nell’ombra – per esempio il mai interrotto collegamento con Berlusconi – e a cincischiare sul progetto democrat, chi guardando al Pse chi ai clintoniani redivivi. Al momento opportuno, se Prodi non chinerà la testa a una forma Partito democratico molto somigliante al vecchio compromesso storico Dc-Pci, quella che oggi viene detta e contraddetta come “fase 2” può diventare un colpo di scena per mandare Bertinotti in sofferenza acuta e costringerlo a far cadere il governo.

Un dispiacere per Veltroni
è il piano alfa di D’Alema e Marini e prevede una minaccia esplicita di accettare i voti dell’opposizione su provvedimenti liberali (pensioni, pubblica amministrazione, enti locali ed energia) che tolgono il sonno ai comunisti. Se l’asse Prodi-Bertinotti arretra, si va avanti con piglio riformista e qualche cicatrice a sinistra. Diversamente salta tutto (magari grazie a qualche volenteroso di Palazzo Madama) e ognuno sarà libero di cercarsi nuovi partner per il grande ballo parlamentare, visto che il presidente Napolitano non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere senza aver prima firmato una nuova legge elettorale.
Fosse per Bertinotti, al massimo si potrebbe dire sì a un appoggio esterno dell’Udc. Ma non durerebbe. A quel punto si aprirebbero altre ipotesi. Il presidente della Camera potrebbe dimettersi e il suo posto verrebbe occupato da un esponente della Cdl, in cambio di un appoggio esterno e con Prodi, traditore dei comunisti, reinsediato a Palazzo Chigi. Difficile. Più verosimile forse una soluzione alternativa, e non meno traumatica: Prodi esce di scena, livido e rancoroso come sempre, e il Cavaliere dà il via libera a una delegazione parlamentare di centrodestra guidata da Fini e Casini che sostenga un governo di unità nazionale con un tecnico al comando (Mario Monti o Mario Draghi, per Confindustria pari sono). Se il prescelto fosse invece Marini, l’attuale opposizione potrebbe comunque rivendicare il suo posto al Senato (per Casini o per il Cav?). In queste condizioni, entrambi i Poli avrebbero a disposizione un anno abbondante per acconciarsi a nuove elezioni e rimpannucciare gli schieramenti. Ne soffrirebbero molto quelli di Repubblica, da Carlo De Benedetti al suo protegé Walter Veltroni che sperava tanto d’essere l’uomo della provvidenza per il 2011.

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