«La dissidenza non è una professione ma una posizione esistenziale». Havel e il potere dei senza potere

Di Angelo Bonaguro
20 Maggio 2013
La vera forza dell'opposizione al regime comunista del futuro presidente cecoslovacco? Un gruppo di amici che non aveva paura di affrontare «la quotidiana tensione fra intenzioni della vita e intenzioni del sistema»
Václav Havel nel 1978 con gli occhiali da sole seduto accanto alla portavoce di Charta 77, la cantante Marta Kubisova

Il 18 dicembre del 2011 moriva Václav Havel.
Quando nell’ottobre del 1978 terminò Il potere dei senza potere – saggio ritornato nelle librerie italiane grazie alla collaborazione di due editori (La Casa di Matriona e Itaca, 208 pagine, 15 euro) – il drammaturgo Václav Havel era già nel mirino della polizia politica cecoslovacca per aver indirizzato una Lettera aperta al segretario del Partito, il filosovietico Husák, che conteneva un’analisi critica della realtà socialista che si andava normalizzando dopo l’intervento a Praga (1968) delle truppe del Patto di Varsavia: «Dietro la facciata posticcia ed enfatica dei grandi ideali umanistici – scriveva Havel – si nasconde la modesta casetta di un borghesuccio socialista, la vuotezza e il grigiore di una vita ridotta alla ricerca affannosa dei generi di prima necessità… È stato ottenuto un consolidamento esteriore, ma a prezzo di provocare la crisi morale e spirituale della società».

Eppure, nell’apatia del «mondo dell’apparenza» totalitario, esistevano contemporaneamente economisti, sociologi, storici, ex-politici riformisti, così come sacerdoti, che cercavano da un lato di diffondere nell’editoria clandestina un pensiero non omologato, e dall’altro di superare la vita da borghesuccio socialista: erano i cittadini di quel brulicante mondo costituito da gruppetti di persone di varie tendenze ed estrazione sociale, che la visione distorta dell’Occidente classificava nella categoria più o meno politicizzata di «dissidenti» e «opposizione». «Qualunque sia la loro professione – scrive Havel nel suo saggio – sono uomini di cui in Occidente si parla più spesso a proposito del loro impegno civile o dell’aspetto critico-politico del loro lavoro che non a proposito del loro lavoro specifico». Ma «la dissidenza non è una professione, è invece inizialmente e soprattutto una posizione esistenziale». Questa fu la caratteristica degli amici del futuro presidente della Repubblica Ceca. Il tratto distintivo di quella “polis parallela” che sarebbe risultata decisiva nella cosiddetta “rivoluzione di velluto” di fine anni Ottanta. Non le idee e le rivendicazioni di intellettuali isolati, determinati a contestare il sistema con gesti eclatanti. Ma, appunto, una «posizione esistenziale» che investì dal basso la società cecoslovacca e determinò la nascita di un ambiente fatto di incontri informali e momenti conviviali, dove le iniziative nascevano dalle necessità quotidiane: corsi di filosofia, religione e storia per supplire all’indottrinamento ideologico; escursioni, pellegrinaggi, mostre… fino al sostegno materiale alle famiglie di coloro che erano finiti nelle grinfie del potere e che, non essendo noti, non potevano contare sull’appoggio dell’Occidente.

Era un ambiente multiforme dove non vigeva il pensiero unico, si discuteva anche animatamente in «dibattiti che – ha raccontato Havel – non suscitavano tra i partecipanti alcuna antipatia, inimicizia o bisogno di aprire reciproche ostilità. Ricordo bene gli infiniti contrasti di due fra i più attivi e stretti collaboratori di Charta 77, ossia Uhl, politico di sinistra, e il cattolico Benda: erano il siparietto atteso ed emozionante delle nostre serate!». Rivedere la signora Bendová fa ripensare proprio alla storia della loro famiglia, paradigmatica dell’ambiente del dissenso. È facile giudicare col senno di poi, come in un film a lieto fine. Queste famiglie, spesso numerose (i Benda avevano 5 figli, i Nemec 6), non erano forse giustificate a prendere le distanze dal dissenso per il bene dei loro figli e fare in modo che finissero gli studi e trovassero lavoro senza ostacoli? Invece queste persone sono andate fino in fondo a quell’esperienza cercando di trasmettere ai figli l’amore alla verità e i motivi per non vivere nella menzogna.

Non vivere nell’odio
Havel non è un coniglio uscito dal cappello ma è stato generato e sostenuto da un ambiente come questo, che gli ha permesso la ricchezza delle intuizioni e dei giudizi raccolti nel Potere dei senza potere. «Se i dissidenti hanno un briciolo di autorità – scrive il drammaturgo – non è certo perché il governo abbia in grande considerazione questo gruppuscolo esclusivo e le sue esclusive riflessioni, ma proprio perché avverte quel potenziale potere politico che è la vita nella verità, perché avverte da che mondo nasce ciò che questo gruppo fa e a che mondo si rivolge: al mondo della quotidiana tensione fra intenzioni della vita e intenzioni del sistema». Fra i testi ora ripubblicati nella nuova edizione de Il potere dei senza potere, è interessante quello di padre Zverina, intitolato “Non vivere nell’odio”, che arricchisce il saggio di Havel attingendo dalla tradizione cristiana e sottolineando che se «scetticismo e disfattismo sono alleati della violenza e dell’odio», la «forza dei senza potere» è piuttosto quella dei «miti che realizzano la rivoluzione più profonda, generale e duratura. Non conquistano la terra, non la sottomettono ma la trasformano in eredità umana di cui rispondono a Dio e agli uomini».

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