Leggendo le riflessioni pubblicate lo scorso 9 marzo su Repubblica con il titolo “La democrazia deve chiedere l’esilio di Dio”, in cui Paolo Flores D’Arcais, tra le altre cose, dichiara che «la religione è compatibile con la democrazia solo se disponibile e assuefatta all’esilio di Dio dalle vicende e dai conflitti della cittadinanza, solo se pronta a praticare il primo comandamento della sovranità repubblicana: non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico. La religione è compatibile con la democrazia solo se addomesticata, cioè convertita all’autonomia assoluta della norma civile rispetto alla legge religiosa. Solo se persuasa che la sanzione spirituale del peccato non può pretendere il soccorso del braccio secolare che lo renda reato», si ha l’impressione che il noto esponente del più intollerante ed intollerabile laicismo nostrano vaghi nel buio senza riferimenti precisi di carattere storico e concettuale.
Dal punto di vista storico si possono effettuare almeno tre considerazioni.
In primo luogo: simili tentativi sono già stati esperiti, e fu per questo che le prime comunità cristiane vennero ferocemente trucidate, poiché non volendo sottomettersi alla assolutezza dell’autorità imperiale romana, difesero con la vita la libertà di coscienza a tal punto da far scrivere a Giustino le sue note apologie «in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati».
In secondo luogo: sebbene sia di moda ritenere che la distinzione tra peccato e reato sia di matrice illuminista e dunque anticristiana (con orgoglio degli atei e vergogna dei credenti), risalendo a Cesare Beccaria il quale scrisse nel settimo paragrafo del suo Dei delitti e delle pene che «alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio», è invece proprio nell’alveo del cristianesimo in genere e della Chiesa in particolare che la distinzione tra reato e peccato viene pensata, riconosciuta e sancita.
Circa mille anni prima rispetto all’illuminismo, infatti, Papa Gregorio Magno (maestro di laicità), nel suo Commento morale a Giobbe, scrive che «tra peccato e delitto c’è questa differenza, che ogni delitto è un peccato, ma non ogni peccato è un delitto».
In terzo luogo: ogni qual volta si è esiliata la dimensione ultramondana, divina, si sono prodotti i crimini più efferati ed antiumani della storia, come testimoniano inoppugnabilmente tutti i numerosi regimi atei e pagani dell’intero XX secolo, di destra e di sinistra, poiché, secondo la inevitabile necessità ben riconosciuta da Nikolaj Berdjaev per il quale «là dove non c’è Dio, non c’è l’uomo».
Sul piano concettuale si possono avanzare almeno cinque obiezioni al pensiero di D’Arcais.
In primo luogo: una obbedienza alla norma civile, per essere davvero assoluta come D’Arcais si augura, deve richiedere la sottomissione totale dell’essere umano, quindi anche e soprattutto della sua coscienza; per cui, o D’Arcais non ritiene che sia così e quindi non vuole davvero una sottomissione assoluta, oppure così sottintende e dunque ritiene che, in sostanza, spetti allo Stato il dovere di controllare la coscienza dei cittadini (sudditi a questo punto), dicendo loro in cosa e come credere o non credere.
In secondo luogo: l’idea che la religione in genere e quella cristiana in particolare sia contraria alla democrazia è del tutto erronea, poiché, come ha riconosciuto Bergson, dato che il cristianesimo si fonda sul concetto di fratellanza, uno dei motti repubblicani (citati anche da D’Arcais), «l’essenza della democrazia è evangelica». In merito, del resto, scrive Maritain che «lo stato d’animo democratico non solo deriva dalla ispirazione evangelica, ma non può sussistere senza questa».
In terzo luogo: non può non rilevarsi la contraddizione logica interna al ragionamento di D’Arcais: da un lato egli propugna una idea di democrazia come «pantheon» (di valori, idee, credenze), ma dall’altro lato chiede proprio l’esilio di Dio da questo pantheon.
Insomma, D’Arcais non si rende conto che dal punto di vista logico, almeno per come è impostato il suo ragionamento, o la democrazia è un calderone dove tutto può rientrare senza distinzione, oppure ogni distinzione risulta essere del tutto arbitraria, per cui come si deve mettere in esilio Dio, si deve pure mettere in esilio chi pensa che Dio debba andare in esilio, cioè tanto il credente quanto il non credente, inciampando goffamente in quel paradosso giuridico e filosofico in cui è incappato maldestramente John Locke (il padre del liberalismo moderno) allorquando scrisse che tanto i papisti (cioè i cattolici) quanto gli atei non possono essere tollerati perché entrambi opposti di per sé alla tolleranza medesima.
In quarto luogo: ritenere che il nome di Dio non possa essere pronunciato in uno spazio pubblico non è proprio una idea democratica, semmai proprio antidemocratica; del resto l’esperienza storica dei totalitarismi atei del XX secolo insegna proprio questo; sorprende, dunque, che l’acuta analisi di D’Arcais tanto tesa alla democrazia, di fatto la neghi; ma del resto sono gli incidenti del mestiere di ideologo, come quando il presunto maestro di tolleranza Voltaire lanciava il grido intollerante di «Écrasez l’infâme» per distruggere la religione.
In quinto luogo: l’idea suggestiva che si possa costruire una sorta di “chiesa civile”, prolungando senza troppa fatica immaginativa il ragionamento di D’Arcais, cioè uno spazio pubblico senza religione, in cui la legge civile non solo vieta quella religiosa, ma la sostituisce in modo pieno e totale, induce a ritenere che non sia effettivamente una idea democratica, poiché un piano del genere è già stato ipotizzato, come ricordano i più autorevoli storici: «La Chiesa Nazionale non avrà né scribi né pastori né cappellani né preti, ma vi avranno la parola gli oratori. La Chiesa Nazionale esige l’immediata cessazione della pubblicazione e della diffusione della Bibbia. La Chiesa Nazionale rimuoverà dai suoi altari tutti i crocefissi, le bibbie e le immagini dei santi. Il giorno della fondazione di questa Chiesa, la croce cristiana sarà tolta da tutte le chiese, cattedrali e cappelle… e sarà sostituita con l’unico simbolo invincibile, la svastica»: firmato dall’Incaricato del Fuhrer per la completa educazione e istruzione intellettuale e filosofica del Partito nazionalsocialista, cioè Alfred Rosenberg (William Shirer, Storia del terzo Reich, Einaudi, Torino, 1962, pag. 264).
Sembra, dunque, che alle sottili e preziose riflessioni di D’Arcais possano perfettamente adattarsi le parole di Francois Renè de Chateaubriand, che, nel suo Il genio del Cristianesimo, ebbe laconicamente e magistralmente a precisare una incontestabile verità: «Senza religione si può avere intelligenza, ma è difficile avere genialità».