
La corsa dei conigli
Venezia
Chiedetegli di salvare il pianeta, di parlare di politica, di esibirsi in analisi sui mali del mondo che individuino un colpevole (preferibilmente a stelle e strisce), ma non di togliersi gli occhiali per scattare una foto. Non sono i nerd di un qualche grigio istituto di studi geopolitici, ma le star di un red carpet che quest’anno si è reinventato così, più impegnato (si fa per dire) che glamour. Così mentre i fotografi gridano invano all’indirizzo di Brad Pitt per fargli mostrare gli occhioni da attore di Hollywood, un George Clooney in smoking e barba di tre giorni risponde piccato in conferenza stampa («Che domanda del cazzo!»), a chi gli chiede come possa conciliare dichiarazioni e film contro le multinazionali con i suoi spot targati Nestlé. C’è spazio pure per le esternazioni di Richard Gere che ha paragonato l’operato di George Bush ai crimini avvenuti nella ex Jugoslavia; e per le dichiarazioni apocalittiche di Sabina Guzzanti: «Viviamo in un regime massonico-fascista». Per non parlare poi di Paolo Franchi, uno dei tre registi italiani in concorso, capace di affermare che «ci sono valori molto profondi nel cunnilingus, che è essenzialmente una ricerca dell’origine, o nella masturbazione, segno di grande ribellione anarchica e politica di fronte all’autorità». Perché ovviamente con la politica non poteva mancare il sesso.
Sesso, sesso, sesso, ovunque e comunque, in tutte le salse, in tutte le posizioni e in tutte le sezioni della Mostra. Persino nel Concorso ufficiale, di solito il più impermeabile ai nudi cinefili, si sono viste scene degne di cinema a luci rosse. C’è stato il kamasutra elegante di Lust, caution di Ang Lee; il nudo integrale di Elio Germano nel soporifero Nessuna qualità agli eroi di Paolo Franchi. Fino all’insostenibile
L’histoire de Richard O. del francese Damien Odoul, la vicenda di un erotomane parigino, presente in una sezione collaterale: 90 minuti in cui si condensano tutte le perversioni più disperate, dallo stupro consapevole all’urina in faccia e spalmata lungo tutto il corpo. Il tempo di pensare che manca solo il sesso con gli animali e arriva il più assurdo e incredibile film di questa Mostra: Help me, eros di Lee Kang Sheng da Taiwan, anche questo in concorso. La pellicola si apre con la masturbazione di un camionista cinese e si conclude, dopo 100 minuti di ordinaria disperazione fatta di sesso e di violenze sugli animali, con una donna obesa che nuda in una vasca viene penetrata da qualche decina di anguille. Ci sono stati perfino degli applausi alla fine del film. E pensare che per un’anguilla sola una decina di anni fa Valeria Marini con il suo terribile Bambola (di Bigas Luna) aveva suscitato solo risate a crepapelle. Ma a un film cinese si perdona tutto, soprattutto se il Direttore della Mostra è un raffinato sinologo, talmente raffinato e tollerante da far sparire la bandiera di Taiwan dal Palazzo del Cinema su richiesta del governo cinese.
L’impressione è che dietro le inquadrature ginecologiche e i primi piani scrotali ci sia un cinema che ha fatto fuori non genericamente dei “valori”, ma qualunque tipo di bellezza o di calore presente nella realtà. Restano la solitudine, la sterilità, la disperazione. Persino il corpo della donna, simbolo per eccellenza di bellezza e armonia, viene dichiarato fuori moda. Dicono che la sessantaquattresima edizione della Mostra del cinema di Venezia è stata fallocentrica. È vero: è stata una mostra del cazzo. La vetrina di un cinema ormai nemmeno più gaio e nichilista, ma solo nichilista. Un cinema di sopraffazione e violenza, dove la parola verità non rimanda più a uno straccio di realtà ma si riduce a essere uno strumento di potere, un mezzo tecnico, come ha ammesso Brian De Palma presentando il suo ultimo applauditissimo e odioso lavoro, Redacted, un altro film dove il presidente Bush viene evocato in lungo e in largo.
La storia è quella di un plotone di soldati di stanza in Iraq, della loro ignoranza e stupidità e soprattutto della loro violenza. Perché i soldati di De Palma non si limitano a essere sgarbati con la popolazione civile chiamata ora “Alì Baba” e ora “negri del deserto”, no: uccidono donne incinte ai posti di blocco, fanno strage di una famiglia innocente, violentano una ragazza quindicenne. È tutta loro la colpa di questa stupida guerra. E poco male se al Qaeda – i ribelli, come vengono chiamati nel film – si vendica rapendo e sgozzando un soldato. Gli americani se la sono cercata.
Richard Gere, la nostra coscienza
Hanno votato, e per ben due volte questi dannati zucconi, il Presidente sbagliato, come ci ha ricordato Richard Gere: questo è il risultato. Era meglio rieleggere Jimmy Carter a cui Jonathan Demme ha dedicato un commovente documentario. De Palma, che nel film non ci risparmia nulla, né la decapitazione del soldato e nemmeno le foto “vere” di bambini e ragazzini col cervello sfondato e gli arti maciullati, ha raccontato di aver voluto fare un film di finzione ma tratto da materiale vero circolante su internet, per far vedere a più gente possibile che tipo di guerra si stia combattendo. Peccato, che come sempre accade per film di questo tipo e in posti come i festival cinefili, il regista si sia dimenticato di circostanziare le foto e si sia ben guardato dal mostrare altre immagini, altrettanto vere e spietate, con protagonisti i terroristi all’opera.
E così via libera a immagini di donne incinte coperte di sangue, foto di bambini fatti a pezzi dalle bombe. Sulla stessa falsariga collaborazionista anche il franco-libanese Sous le bombes di Philippe Aractingi, un altro documentario finto, ambientato durante il conflitto in Libano dell’anno scorso e che racconta la storia di una libanese musulmana in cerca del figlioletto di due anni, scomparso sotto i bombardamenti. Un film duro e impressionante, come può essere duro qualsiasi reportage sulla guerra, e tuttavia sottilmente ricattatorio perché non si può non parteggiare con questa madre alla ricerca del figlio, anche quando questa donna e il suo amico cristiano, insultano Israele chiamato nemico dei musulmani e l’America di Bush chiamata Grande Satana. Poco importa, anche qui, se si punta più alle lacrime che non a far luce sulle ragioni del conflitto. E anche qui, come nel film di De Palma, la violenza e lo splatter vengono infilati con precisione chirurgica in sequenze che possano risvegliare il più possibile lo sdegno ma non il cervello.
A loro la famiglia, a noi le pippe
È il cinema: l’arma più potente, come affermava Mussolini inaugurando 75 anni fa la prima edizione della Mostra di Venezia. E allora fa un certo effetto vedere che uno dei pochi film autenticamente positivi sbarcati quest’anno al Lido racconti la storia di una famiglia incasinata, con un sacco di figli e nipoti, alle prese con la costruzione di un ristorante galleggiante, La graine e le moulet di Abdellatif Kachiche. Un bello spot per una famiglia musulmana immigrata in Francia da generazioni. Fa effetto, perché quello che era patrimonio del nostro cinema – la casa, la famiglia, il mangiare bene, i toni della commedia amara e mediterranea – pare facciano parte soltanto di un altro mondo, mentre a noi sono rimaste le seghe. Quelle fisiche e quelle mentali.
Alla fine ha vinto (immeritatamente) Ang Lee con un film elegante, ma freddo, troppo lungo e che concede troppo a una tendenza porno per nulla funzionale alla trama. Ma è il minore dei mali: poteva vincere il falsissimo De Palma, che però si è portato a casa un Leone alla regia. E un premio se l’è portato a casa addirittura quella chiavica di Brad Pitt (miglior attore).
Venghino, ci sono premi per tutti
Premio per la miglior sceneggiatura a It’s a free world di Ken Loach, il film contro il lavoro interinale. Hanno vinto un po’ tutti, insomma, tranne il film che doveva stravincere. È The Valley of Elah di Paul Haggis, un film bellissimo, a partire dalle parole del regista, già premio Oscar per Crash – Contatto fisico e per la sceneggiatura di Million dollar baby. Haggis ha raccontato con grande umiltà che il film è nato dall’amicizia con Clint Eastwood, che ha finanziato abbondantemente il film pur avendo opinioni diametralmente opposte sulla guerra in Iraq. Il film però non è un film sulla guerra, nonostante i titoloni del Corriere della Sera 2 settembre (“Charlize indaga sui soprusi della guerra in Iraq”). Come ha raccontato il regista, In the Valley of Elah «è un film sulla gente giusta che compie delle scelte giuste».
«Non importa se siamo favorevoli o no alla guerra, importa che quelle persone le abbiamo mandate noi, i nostri governi. Sono i nostri soldati, le nostre donne, i nostri uomini e noi siamo responsabili nei loro confronti. Fanno questo per noi. E sempre per noi sopportano quello che viene fatto loro». E infatti il film racconta di un padre alla ricerca del figlio perduto non in Iraq ma in patria, durante una licenza. Lo cerca e quando lo trova vuole vederlo, anche quando ormai c’è ben poco da vedere. Vuole vederlo assieme alla moglie perché quello è suo figlio: è carne della sua carne, sangue del suo sangue. Insomma: un film sulla responsabilità, sul reggere lo sguardo di una realtà che sembra pervasa di solo male. È la ferita di un popolo che ha perso dei figli in guerra ma non scappa. È un film sull’esserci rocciosamente, in una Mostra dominata dalle immagini e dalle opinioni di pasta frolla è stato un evento imprevedibile. Un miracolo di coraggio. Un po’ come il piccolo Davide, che nascose la paura in una tasca, e con un colpo di fionda spaccò la testa al feroce Golia. Laggiù, nella valle di Elah.
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