La carità che uccide. Sebbene abbiamo dato miliardi di dollari all’Africa, l’Africa sta morendo
A partire dal secondo dopoguerra la cooperazione internazionale allo sviluppo ha usufruito di immense risorse finanziarie, tecnologiche e umane destinate a combattere la povertà nei paesi del terzo mondo. Tuttavia ha mancato l’obiettivo proprio dove più si è impegnata e dove maggiore era il bisogno: in Africa, a cui in poco più di mezzo secolo sono andati oltre mille miliardi di dollari, erogati a vario titolo e con diverse modalità, una sorta di “Piano Marshall” inaugurato all’indomani delle indipendenze per dotare i nuovi governi dei capitali, delle tecnologie e delle competenze professionali indispensabili.
Alle risorse della cooperazione, per l’Africa, si aggiungono quelle ricavate dalla vendita di materie prime e raccolti e dalle concessioni su miniere e giacimenti. Inoltre l’Africa indipendente ha potuto contare fin dall’inizio sulle rimesse degli emigranti, divenute così cospicue da rappresentare oggi per molti Stati una voce consistente del Pil e tali da superare in valore sia gli investimenti esteri che gli aiuti internazionali. Dopo l’anno nero, il 2009, a causa della crisi finanziaria internazionale, nel 2010 le rimesse degli africani emigrati in altri continenti hanno ripreso a crescere superando i 21 miliardi di dollari. Per il 2011 si prevede un totale di 22 miliardi e per il 2012 la previsione è di 24 miliardi.
Eppure in Africa la povertà è aumentata proprio mentre il continente disponeva di una quantità di risorse straordinaria, incomparabilmente superiore rispetto a qualsiasi altra epoca precedente. Tra il 1970 e il 1998, il periodo in cui ha ricevuto i maggiori contributi dall’estero, la povertà è passata dall’11 per cento al 66 per cento. Casi esemplari, tra gli altri, sono il Burkina Faso e il Burundi, due degli stati più poveri del mondo (rispettivamente 181° e 185° su 187 stati classificati nell’Indice dello Sviluppo Umano 2011 dell’Undp): 30 anni fa il loro Pil pro capite era superiore a quello della Cina. Un altro esempio: il Kenya nel 1961, quando ancora era colonia britannica, aveva un Pil pro capite superiore a quello della Corea del Sud; adesso il suo Pil è di 1.622 dollari l’anno e quello della Corea del Sud è di 29.326 dollari.
Oggi gli agricoltori africani producono, su base pro capite, il 19 per cento cento in meno rispetto al 1970. È così in quasi tutta l’Africa subsahariana, nonostante gli sforzi e le cifre spese. Le cause solitamente addotte per spiegare come mai (conflitti etnici, dittature, corruzione, inflazione, Aids, difficoltà di accesso ai mercati…) in realtà sono quasi irrilevanti. Prima di tutto la produzione agricola è stagnante perché non sono stati realizzati i necessari progressi tecnologici: sementi selezionate, fertilizzanti chimici, corrente elettrica, sistemi di irrigazione, macchinari e attrezzi moderni.
Nel settore industriale, anche nei paesi in cui gli investimenti si sono concentrati per decenni sul suo sviluppo, è successo lo stesso.
Le attività di cooperazione si sono articolate su tre fronti d’intervento: il superamento delle economie di sussistenza, tramite l’industrializzazione dei settori produttivi e la costruzione di infrastrutture; la creazione di sistemi scolastici e sanitari efficienti e accessibili a tutti, per crescere generazioni di giovani in buone condizioni di salute, autosufficienti economicamente e in grado di decidere di sé e di scegliere il loro futuro; e infine l’assistenza alle popolazioni in difficoltà, in particolare se minacciate da conflitti e calamità naturali, volta a garantire loro, per quanto possibile, protezione, mezzi di sostentamento e cure mediche.
La spiegazione che va per la maggiore è che occorreva più denaro, che quello stanziato non era abbastanza, che i paesi industrializzati devono aumentare la quota del Pil dedicata ai paesi poveri vincendo egoismo e indifferenza. Ma negli ultimi anni si è andata affermando l’idea che non sia affatto una questione di denaro – neanche i paesi africani che godono della remissione del debito estero nell’ambito del progetto Hipc mostrano segni convincenti di ripresa e progresso – bensì di come viene speso e da chi.
«La peggior decisione della moderna politica dello sviluppo: la scelta degli aiuti come soluzione ottimale al problema della povertà in Africa»: questo è in sintesi il bilancio di Dambisa Moyo, l’economista originaria dello Zambia divenuta famosa in tutto il mondo per le sue drastiche critiche agli aiuti allo sviluppo, esposte nel libro in Italia pubblicato da Rizzoli con l’eloquente titolo La carità che uccide.
Il fatto è che, mentre un flusso immenso di denaro e di risorse si riversa da decenni nel continente, miliardi di dollari ne escono, depositati in banche straniere, usati per investire in immobili e in imprese finanziarie e spesi per acquistare beni di lusso fabbricati in altri continenti. Complessivamente ogni anno i capitali sottratti alle casse statali dai politici africani e dai loro entourage ammontano, secondo calcoli dell’Unione Africana, a oltre 100 miliardi di euro, circa il 25 per cento del Pil globale dell’Africa.
Anche le rimesse degli emigranti si rivelano una potenzialità tutto sommato sprecata. Quasi tutto il denaro infatti viene speso in beni di consumo e tutt’al più in attività nel settore informale, non in imprese economiche tali da creare sviluppo.
L’errore fondamentale, ma non l’unico, è stato dar credito ai governi africani susseguitisi a partire dalla fine dell’epoca coloniale europea e affidare a loro capitali e risorse: corruzione e malgoverno hanno dilapidato patrimoni immensi e continuano a farlo. Peggio ancora, la cooperazione allo sviluppo contribuisce alla sopravvivenza dei regimi autoritari che fanno razzia delle ricchezze nazionali. Parte degli aiuti, opportunamente stornati, oltre ad accrescere i beni e i capitali privati dei leader africani e delle loro clientele, vengono usati per armare e remunerare lautamente forze dell’ordine, servizi segreti e guardie presidenziali: così si mantiene il potere in Africa, più che grazie al consenso popolare. Ma anche il consenso, o se non altro l’ordine pubblico, devono molto agli aiuti internazionali che da decenni attenuano le tensioni sociali e politiche generate dalle difficili condizioni di vita delle popolazioni rurali e delle masse urbane mitigando gli effetti dolorosi delle crisi economiche, ambientali e sociali provocate dalla disattenta e irresponsabile amministrazione della cosa pubblica. I generi di prima necessità offerti dalla cooperazione internazionale rimandano l’ennesima protesta per l’aumento dei prezzi di mais, grano e riso, i progetti di sviluppo alimentano illusorie speranze di progresso e sicurezza, i servizi sanitari e scolastici creati dalle Ong e dagli istituti missionari rimediano all’inefficienza e all’inadeguatezza di quelli statali.
Anche sotto questo profilo, quindi, gli aiuti allo sviluppo diventano parte del problema, come sostiene Dambisa Moyo: il sostegno pubblico internazionale allo sviluppo «distrugge ogni slancio alle riforme, allo sviluppo, alla capacità di creare ricchezza nazionale e di esportarla. Alimenta la corruzione e i conflitti interni e favorisce il mantenimento di regimi pluriennali».
Articolo tratto dallo speciale Più Mese di Tempi di dicembre
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!