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La Camera Penale di Milano contro il libro “Le fondamenta della città” del giudice Gennari

Documento dell'organismo degli avvocati contro il libro del Gip di Milano. «Si è spinto sino a trattare di vicende processuali ancora pendenti e ancorché definendole tali, le ha fatalmente proposte come verità ormai acquisite»

Redazione
21/02/2013 - 18:52
Interni
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Giuseppe Gennari, il giudice che nelle scorse settimane era assurto alla ribalta delle cronache per aver chiamato in causa “l’appartenenza” a un movimento ecclesiale come aggravante di fatti corruttivi (caso Kaleidos), ha appena pubblicato per Mondadori un libro in cui fa ampiamente uso dei contenuti di procedimenti penali ancora pendenti e di cui lo stesso Gennari è stato giudice. In seguito a ciò, la Camera Penale di Milano, organismo rappresentativo degli avvocati, ha indirizzato «ai dirigenti degli Uffici Giudiziari competenti» questo documento. 

Sulla pubblicazione del libro “Le fondamenta della città” del giudice Gennari

La recente pubblicazione del saggio del dott. Giuseppe Gennari, GIP presso il Tribunale di Milano, intitolato Le fondamenta della città, impone alcune riflessioni su temi nevralgici che riguardano lo stesso statuto del giudice.

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Con sorpresa, infatti, abbiamo riscontrato dalla lettura del libro che l’Autore ha utilizzato il patrimonio di conoscenza acquisito in ragione della sua funzione  – relativo ad una serie di procedimenti (spesso ancora pendenti) riguardanti la criminalità organizzata  – come base della stessa trama narrativa.

In questa prospettiva l’Autore ha, ad esempio, utilizzato verbali di interrogatorio cui ha proceduto personalmente arricchendo il contenuto degli stessi con la descrizione di sensazioni e stati d’animo vissuti in prima persona nel compimento di atti propri dell’esercizio della funzione giurisdizionale.

In questa sede non è ovviamente possibile passare in rassegna tutto il contenuto del libro, basterà sinteticamente elencarne le caratteristiche per comprendere come tale iniziativa editoriale risulti palesemente in contrasto con i principi di terzietà, di imparzialità e di riservatezza.

Nel libro, come detto, il giudice-scrittore utilizza ampiamente atti processuali oggetto dell’esercizio della propria funzione giurisdizionale come trama della sua ricostruzione di “come il nord Italia ha aperto le porte alla ‘ndrangheta”.

Così facendo l’Autore si è spinto sino a trattare di vicende processuali ancora pendenti e ancorché definendole tali, le ha fatalmente proposte come verità ormai acquisite.

Il risultato è che il giudice finisce per offrire ai lettori il proprio convincimento al di là dello stesso esito delle vicende processuali.

Come se la verità si identificasse con quanto da lui deciso e dimenticando che la sua decisione non è altro che una tappa di un percorso giurisdizionale articolato e complesso.

Esemplificativo sul punto è ciò che emerge nel racconto della vicenda in cui egli aveva pronunciato una sentenza di condanna (per omicidio), racconto che rimane caratterizzato in chiave negativa per gli imputati sebbene la condanna sia stata annullata senza rinvio dalla Corte di Cassazione.

Se ne ricava la carenza di consapevolezza della natura relativa ed incerta della verità processuale e di quel dato che recentemente Luigi Ferrajoli ha felicemente sintetizzato nell’irriducibile margine di illegittimità che è insito nell’esercizio della giurisdizione. Tutto ciò prescinde, ovviamente, dal delicato e complesso tema trattato nel saggio ma si pone come vero banco di prova al fine di valutare quale sia il limite dell’esercizio del diritto, costituzionalmente garantito, di libera manifestazione del pensiero per chi rivesta funzioni giurisdizionali.

Tale diritto risulta legittimamente esercitato laddove non ponga in pericolo l’indipendenza, l’imparzialità e la necessaria riservatezza della funzione giurisdizionale mentre un limite ostativo assoluto sembra potersi individuare nel divieto di esprimere opinioni e commenti su fatti processuali ancora non definitivi e rispetto ai quali il giudice abbia esercitato la sua funzione.

Gli atti processuali, la stessa ricostruzione giudiziaria di un fatto non possono essere utilizzati dal giudice – di quel processo e di quel fatto – come canovaccio di una narrativa a carattere saggistico, nell’ambito del quale il Giudice–scrittore prende posizione sulla sussistenza e sulle caratteristiche di un fenomeno criminale.

Per di più narrando di fatti recenti, indicando nomi e cognomi delle persone imputate negli stessi, con le intuibili conseguenze che ne derivano, e senza che tali vicende nemmeno risultino definitivamente giudicate.

Nel far ciò, inevitabilmente instaurando un rapporto innaturale con l’opinione pubblica, dal momento che egli potrà forse incontrare il consenso di quest’ultima ma non potrà che perdere quella fiducia nella sua imparzialità di cui le parti del processo, e segnatamente gli imputati, debbono costantemente nutrirsi.

E’ a tutti noto che nei rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, il Giudice sia tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio.

Così come nell’esercitare il diritto di piena libertà di manifestazione del pensiero il magistrato deve ispirarsi sempre a criteri di equilibrio e misura.

E’ evidente come tali principi avrebbero dovuto ispirare l’Autore in modo da evitare che la pubblicazione del libro in questione fosse, per quanto qui interessa, fonte di indebolimento delle fondamentali caratteristiche di indipendenza e di imparzialità su cui deve costantemente basarsi la funzione giurisdizionale.

E’ il caso ancora di richiamare l’intervento che recentemente Luigi Ferrajoli ha svolto nell’ambito del congresso di una corrente della magistratura allorché egli ha ammonito il potere giudiziario al rispetto della regola di sobrietà e di riservatezza: ciò che i magistrati devono evitare con ogni cura è qualunque forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo … la figura del ‘giudice star’ è la negazione del modello garantista della giurisdizione.

Soprattutto è inammissibile  – e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione  – che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati.

Illuminante di come tali  principi non siano stati osservati dal giudice-scrittore è il ringraziamento che egli – avvisando il lettore di farlo quale semplice cittadino – rivolge alle DDA di Milano e Reggio Calabria per l’eccellente lavoro di cui sono stato testimone.

Sorprendente e singolare eterogenesi di più funzioni e ruoli che sfugge al controllo dell’Autore dal momento che egli una volta giudice non può più essere né cittadino né tanto meno testimone dell’attività d’indagine di cui sia stato appunto giudice.

E’ opinione della Camera Penale di Milano che l’iniziativa editoriale del giudice Gennari ha metodo e contenuti tali da minare l’imparzialità e la terzietà dello stesso magistrato.

Il Consiglio Direttivo

Tags: 'ndranghetaGiuseppe GennarikaleidosLuigi Ferrajoli
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