La “bloody sunday” del Pd di Catania. E i renziani protestano: «Qui o si cambia o si muore»
«Decisamente una “sunday bloody sunday”»: così dice a tempi.it un giovane renziano del Pd catanese. La giornata di ieri ha visto arrivare allo scontro finale le due anime in cui è diviso il partito nel capoluogo etneo. Un ritratto della vita del Pd di provincia che pare lo specchio di ciò che accade a livello nazionale. Da mesi a Catania, in vista del voto per le amministrative in primavera e dopo 13 anni di governo ininterrotto di centrodestra, il Pd è lacerato. Solo che, peculiarità tutta locale, qui è diviso in tre: bersaniani, renziani, margheriti. Lo scontro più forte è tra i due candidati a primo cittadino. Il margherito Enzo Bianco, ex ministro dell’Interno, ex sindaco della primavera di Catania (negli anni ’90), ha deciso di ricandidarsi. Conta su una raccolta di 10 mila firme di cittadini. Bianco è stato senza dubbio un sindaco molto amato ai suoi tempi. Ma poi è uscito sconfitto nel “duello” del 2005 con Umberto Scapagnini, è andato a Roma e quindi ha perso da anni, questa l’accusa degli avversari, i rapporti con la città. La vittoria, insomma, non è affatto scontata.
IL DELFINO. Forte di questi ultimi dubbi, e del successo riportato alle “parlamentarie” (è risultato il primo dei votati) e alle politiche, anche il giovane deputato Giuseppe Berretta ha deciso di candidarsi, e ha chiesto di indire le primarie per la carica a sindaco. Berretta, politicamente, nasce proprio come delfino di Bianco (suo padre Paolo è stato vicesindaco nella “primavera” etnea) e oggi rappresenta l’area bersaniana. Bianco accusa il “delfino” per la “raccolta di cariche” che starebbe collezionando. L’ultimo commento all’acido muriatico risale a ieri, quando su Facebook Bianco ha scritto: «Mi chiedo se l’ on.Berretta è a conoscenza degli impegni parlamentari che lo assorbiranno nei prossimi tre mesi. Le prossime scelte le faremo per vincere e governare, per far rialzare Catania. Non per soddisfare le pretese di un rampante pigliatutto».
DISASTRO ELETTORALE E TESTUGGINE. Come a Roma, sotto le pendici dell’Etna il partito, prima di tutto, sta facendo i conti con una drammatica sconfitta. Alle elezioni ha raggiunto il 15 per cento (163 mila voti appena, nel secondo capoluogo dell’isola), e si è posizionato al terzo posto, dietro all’M5s primo partito (33 per cento, 340 mila voti) e al Pdl (30 per cento, 322 mila voti). Insomma, non ci sono stati scandali, altrui divisioni (anche nel centrodestra) o dissesti e disservizi degli avversari, che abbiano giovato al Pd.
Così si arriva ad ieri. Berretta sinora ha potuto contare sul sostegno della segreteria provinciale. Ma dopo la clamorosa sconfitta delle politiche, i due vice segretari si sono dovuti dimettere. L’ultimo sostenitore, il segretario Luca Spataro, lo ha fatto ieri durante la segreteria provinciale. Spataro voleva come Berretta le primarie, perché a decidere fossero i cittadini. Una pattuglia della “vecchia guardia”, composta da 15 esponenti tra deputati, senatori e deputati regionali (tra cui Concetta Raia, proveniente dalla segreteria provinciale della Cgil, che ancora oggi rappresenta, ed ex militante Pci), lo ha battuto sul tempo, con una mozione che chiede una brusca inversione di tendenza nel Pd. «Non è tempo di giochi politici, di distinguo, di alchimie. È il momento del fare» ha detto Raia. Morale della favola: partito compatto e chiuso a testuggine, niente primarie. Berretta stamane ha commentato sconsolato: «È una decisione suicida, assunta dai notabili del partito che pensano ancora di poter decidere senza sentire l’esigenza di ascoltare i cittadini. Ai tempi di Bianco, quattro lustri fa, c’era un’Italia bipolare, ma non c’è più niente di questo».
I RENZIANI: «O SI CAMBIA O SI MUORE». Sullo sfondo di questa faida restano (per ora) i renziani. A tempi.it, il coordinatore provinciale dell’area, Giulio Seminara, spiega: «Davvero una bloody sunday. Non sostenevamo un candidato, ma il metodo delle primarie. Speravamo che il Pd le aprisse a tutti i cittadini, non solo agli iscritti, e ad altri candidati (compresi quelli della lista Megafono di Rosario Crocetta e di Sel). Invece vedo un partito chiuso in se stesso, che ha paura di aprirsi. Siamo stufi di un gruppo di notabili che trama, si lacera e finge di ignorare il vento grillino che ci soffia addosso. L’elettorato è distante e rischiamo di essere travolti. Onestamente, noi renziani non ci sentiamo di appartenere a nessuna delle chiese, Bianco o Berretta, i cammellati di Cgil o margherita o ex diesse. Avevamo delle proposte: i tagli di enti inutili, la rivalutazione del turismo, la trasparenza sugli appalti, il ritorno del comune in quartieri periferici, ormai ridotti come una Sarajevo post-bombardamento. Non ci hanno nemmeno ascoltati. Ma non vogliamo fare il fan club di nessuno. Per ora sosterremo il candidato del Pd. Dopo, al congresso di ottobre, daremo battaglia: qui o si cambia o si muore».
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