La vanità della rivoluzione. Calcio magister vitae

Di Roberto Perrone
14 Giugno 2017
O voi che avete goduto della derrota bianconera a Cardiff, imparate dalla storia e da come ogni rivoluzione ci consegni altri potenti, più potenti che pria

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti

Compagni il gioco si fa peso e tetro comprate il mio didietro, io lo vendo per poco (F. Guccini, l’Avvelenata)

Compagni, voi che eravate in piazza con il cappio – come quel leghista in Parlamento nel 1993 (rivisto in tv nella serie farlocca da seguire solo per la presenza di Miriam Leone) – nella bollente estate del 2006, voi che siete passati dal trionfo di Berlino al rammendo da tricoteuses mentre era in azione il sommario tribunale del popolo, quello dove tutto (beh, mica tutto, come poi si è visto, alcune intercettazioni sono comparse non per magia solo dopo anni) viene spiattellato sulla moderna piazza mediatica, adesso vi consolate con la derrota bianconera in Champions League, quella appena avvenuta con il Real Madrid. La settima in nove finali, la seconda in tre anni. La tripletta dell’Inter resta intonsa. Via con le vignette, le foto ironiche, le battute. Ci sta tutto, lo sfottò è parte essenziale del tifo, la goduria per le altrui sciagure parte orribile ma essenziale della nostra fragilità di esseri umani. Però si tratta di palliativi, perché avete abbattuto un tiranno ma questo è risorto dalle sue ceneri più forte che pria. Di cosa parliamo? Parliamo della vanità della rivoluzione, della sua sostanziale falsità di evento imposto dall’alto a cui il popolo bue abbocca credendo di cambiare il mondo ed effettivamente qualcosa cambia, perché quello che arriva dopo è sempre peggio di quello che c’era prima.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Negli ultimi duecento anni ne abbiamo viste tante dalla Rivoluzione francese a “Calciopoli”. Uso il termine solo per far capire a tutti di che cosa parliamo anche se non ha nessun senso, come ben sapete. O almeno spero. Però negli ultimi cinquant’anni, forse perché è entrato in crisi il nostro modo di vivere, forse perché il modello di sviluppo, a cui ci aveva abituato il boom economico del dopoguerra, si è arenato, forse perché un tempo gli snodi epocali finivano, appunto, con una bella guerra, le finte rivoluzioni si sono intensificate e le abbiamo cavalcate, senza criterio né auto-critica, senza renderci conto che alla fine ci saremmo ritrovati peggio di prima. I tanti cantori del ’68, della liberazione, della protesta ci hanno trasportato negli Anni di Piombo, le parole al vento di quegli anni sono state tante, violente come le pallottole alle quali si alternavano.

Qualche tempo fa, sul Corriere, ho letto un articolo di Carlo Rovelli sul ’77. Scriveva che «sognare non è stato inutile». Ma veramente pensavate di cambiare il mondo? Sapete perché avete perso? Perché la vostra rivoluzione era un gioco d’élite. Come Risiko. Ce l’avevano in pochi, andavano da loro a giocare. E così la rivoluzione. Era una rivoluzione di pochi e di quei pochi molti erano ricchi. Quando la ricreazione è finita sono tornati ad altri giochi. Uno dei miei più cari amici nel ’77 andò al famoso convegno sulla repressione a Bologna. Io non capivo dove fosse la “repressione”, mi sembrava che tutti facessero quello che gli pareva. Sebbene la pensassimo diversamente, per lui allora ero un reazionario, eravamo amici e lo siamo ancora. Forse in provincia era più facile superare le diversità politiche. Comunque partì per quel fine settembre bolognese e quando tornò era come trasfigurato: «È stato bellissimo» mi comunicò. La rivoluzione fallì per colpa della repressione? Ma va’. Fallì perché era farlocca, infatti quel mio amico adesso è primario in un grande ospedale, ha la villa in montagna, l’attico al mare e ogni tanto, quando gli telefono, lo becco a Tenerife o a Gstaad che gioca a golf. Gli voglio bene più di prima anche se mi considera un po’ di sinistra.

Tanto tifo da stadio per nulla
La vanità della rivoluzione apre la strada alla pesantezza della restaurazione. Chi voleva cambiare il mondo negli anni Settanta, con i suoi ideali/valori senza un vero aggancio con il reale, senza una vera capacità di andare incontro alle esigenze del popolo, si è ritrovato, senza rete, con il “riflusso” degli anni Ottanta. Altro che repressione, siete partiti dalla fantasia al potere e vi siete ritrovati con Drive In, i paninari e la Milano da bere, che tanto avete disprezzato e non ho mai capito perché. Avevate promesso: una risata vi seppellirà. Invece siete stati seppelliti voi dalle risate finte dei programmi delle tv di Silvio Berlusconi. Ah, ma arriviamo anche qua. Arriviamo alla più finta tra le finte rivoluzioni, quella di Mani pulite.

Venticinque anni sono passati. Antonio Di Pietro era un ragazzo come noi che improvvisamente divenne l’uomo più famoso d’Italia. Prese un socialista “cor sorcio in bocca” e di lì fu una valanga. Non voglio entrare nel merito, come dicono quelli bravi, ma anche questa fu una rivoluzione imposta dall’alto, spacciata come svolta epocale. La fine della Prima Repubblica, l’inizio della Seconda. La fine del dominio dei partiti, azzerati dagli avvisi di garanzia usati come clave. Ma alla fine, da quella sfilata di gente in manette e di politici a capo chino, quanti poi finirono in carcere, quanti effettivamente pagarono per quello che avevano fatto, se l’avevano fatto? Pochissimi. A parte che, come dice lo stesso Piercamillo Davigo (ma avete notato che in 1993 gli hanno dato la faccia paciosa di Natalino Balasso? Mai attore fu meno azzeccato), adesso «i politici rubano più di prima», dalla fine dei partiti classici è nato Silvio Berlusconi che come “nemico” è stato molto più potente della vecchia Dc e del Psi. Tanto rumore, tanta gente ai ferri, tanta gente che bivaccava attorno ai tribunali, specialmente quello di Milano, tanti signori nessuno che hanno fatto fortuna, dal giornalismo al cinema, dalla politica all’economia, tanto tifo da stadio (“forza Di Pietro”), tante speranze deluse. Ancora una rivoluzione senza sbocco.

La gggente che si illude
Erano i giorni in cui tutti picchiavano duro, seguendo lo schema degli anni Settanta, compresi quelli che, qualche anno dopo, nemmeno tanti, passeranno dal club dei manettari a quello dei garantisti. Il solito fenomeno. In mezzo alle barricate, tra il fumo e il rumore di metallo tutti vogliono vedere il sangue, perdono il controllo, poi ci ripensano e come dice la canzone di Antonello Venditti «compagno di scuola, compagno di niente, ti sei salvato dal fumo delle barricate o sei entrato in banca pure tu?». Per molti la banca è stata un giornale più importante e meno estremo, oppure un giornale con un padrone che aveva bisogno di giornalisti allineati e coperti. E allora il sogno rivoluzionario si arena. Molti altri invece continueranno a cavalcare l’onda giudiziaria e anche qua sono nate fior di carriere, ancora in corso.

Dal tintinnar di manette 1992-1994 sorge dunque la restaurazione di Silvio Berlusconi. La rivoluzione del 1992 finisce con Forza Italia. Certo, poi, per altri 25 anni i magistrati detteranno l’agenda alla politica, impediranno al Parlamento di mettere ordine nella giustizia, stroncheranno carriere, costringeranno alla resa molti politici, alcuni colpevoli, molti invece poi risultati estranei ai fatti. Ma il sogno rivoluzionario, quell’alba di un presunto cambiamento fatto passare per certo nel 1992 non arriverà mai. L’Italia doveva cambiare. Invece non cambierà. Antonio Di Pietro mollerà la toga per un posto in Parlamento, fonderà un partito, diventerà ministro, poi imboccherà il tunnel dell’oblio, quello che porta a qualche comparsata televisiva in qualità di ex combattente e reduce. Mentre l’onda lunga della finta rivoluzione produce ancora danni, perché nasce dal quel clima e matura per anni l’antipolitica di cui nutre la pianta del Movimento 5 Stelle.

Ah, a proposito di rivoluzioni vane, vogliamo parlare del sistema maggioritario, introdotto proprio in quegli anni per permettere la governabilità e proporre gli schieramenti agli elettori prima del voto? Accidenti a me, sono andato perfino a votare a quel referendum, sono caduto anch’io, è stata una delle ultime volte, alla promessa di una vana rivoluzione. Adesso, in questi giorni, venticinque anni dopo ci stanno riproponendo il proporzionale. Alla tedesca, ma proporzionale. Mario Segni, un altro ragazzo come noi, ve lo ricordate? Un altro eroe di quegli anni inghiottito dall’ennesima restaurazione.

Non c’è cambiamento se non parte dal basso, non è retorica. Anche quella di Grillo e Casaleggio è una finta rivoluzione, è un cambiamento deciso a tavolino e fatto scendere fino alla “gggente” che si illude di farne parte. Prima o poi fallirà anche questa, come sono fallite anche le altre rivoluzioni decise da pochi. La Rivoluzione francese ha prodotto prima il Terrore con Robespierre e poi l’impero con Napoleone.

Un principio non decoubertiniano
E la Juventus, almeno per l’Italia, è un po’ una sintesi di entrambi. Ha perso la finale di Champions per la seconda volta in tre anni. Da due giorni ricevo vignette dai miei amici interisti che gongolano per il loro Triplete rimasto unico nella storia italiana. Certo, io capisco il tifo, ma nel 2006 sembrava che la storia, per l’ennesima volta, avesse avuto uno scarto. Juventus in serie B e con metà squadra in fuga (Ibrahimovic e Vieira all’Inter, tra l’altro). La rivoluzione degli “onesti” mandò alla gogna i dirigenti juventini dell’epoca e spezzò il dominio del tiranno. Pareva finita per la Juventus. Certo sarebbe tornata in serie A, ma per piazzarsi a ridosso delle prime, per stare lì, a competere per un posto in Champions League. La “Rubentus” era finita, scomparsa nella solita tempesta intercettatoria che detta i tempi e i modi delle rivoluzioni farlocche.

E invece si è appena giocata la seconda Champions in tre anni. Maledetta, ma finale. Nel 2006 si verificò uno strano fenomeno. Ah, il tifo, come stravolge pure il pensiero più radicato. Anche i più fieri garantisti, che in un altro ambito avrebbero sottolineato le incongruenze di quella faccenda, la faciloneria di certe interpretazioni, la mancanza di riscontri oggettivi, in quel caso abbandonarono la loro laica religione del dubbio e tirarono fuori la ghigliottina tascabile. Questi, dopo aver abbattuto l’ennesimo tiranno, ora vivono sotto il tallone di uno anche peggiore.

La Juventus è tornata più spietata di prima: sei scudetti di fila, record storico, e negli ultimi tre anni doppietta Serie A-Coppia Italia e due finali di Champions. Per i suoi nemici c’è la magra consolazione che questa Coppa non riesca a vincerla, però, per chi va un po’ più in là del naso del tifo, ci sono da segnalare due fatti: 1) meglio perdere in finale che non arrivarci per niente; 2) il punto uno non è un principio decoubertiniano: arrivando a Cardiff la Juventus ha incassato 130 milioni che investirà per dominare in Italia e riprovare con l’Europa. L’Inter, che guidò la rivoluzione del 2006, finito quel periodo da cicala, è tornata la solita Inter. Anzi no, perché ora è cinese, come il Milan. Questa sì che è una vera rivoluzione, ma tutta in negativo, se permettete. E c’è chi pensa che la rivoluzione del 2006 sarebbe stato meglio non farla. Compagni e amici, dovevate pensarci prima. Come per tutte le altre che ancora scontiamo. 

@perri57

Foto Ansa

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