Italia, ricordati: «Nessun uomo si salva da solo»
Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Figuratevi la faccia dei medici appena ricevuta la donazione in quel guazzabuglio di malati appesi a un respiratore che è l’ospedale Sacco di Milano. Trentacinquemila euro: li hanno messi insieme lavoratori e famiglie d’Africa sbranati dalla fame e seguendo l’avanzata di Covid, «quando è arrivato in Lombardia abbiamo subito pensato ai nostri amici».
Qualche parallelo più in basso, in zona equatore, una bambina sta fissando la telecamera. È fiera e piccolina davanti a un secchio di plastica rosso, «mi lavo le mani per combattere il coronavirus, tutti dovrebbero farlo». Lascia zampillare un rivolo d’acqua dal secchio, poche gocce di detergente da una bottiglietta di aranciata: non sa cosa è un virus o che in tutto il Kenya ci sono solo 150 posti letto in terapia intensiva, ma sa benissimo cos’è un accidente, un morir di fame, di guerra o di malattia, di troppa acqua o troppo poca. Sa che tra le mamme della zona è tutto un andare di forbici sulla stoffa per realizzare mascherine, che i padri non portano più a casa nulla da mettere sotto ai denti e soprattutto che la scuola è chiusa: «Mi lavo le mani», dice col suo inglese impertinente da uccellino, si lava le mani per uscire prima dai pasticci.
A Nairobi è appena arrivato maggio e c’è poco da trafficare con le parole, «da quando Covid ha fatto il suo ingresso ufficiale nel paese si contano 374 contagi e 14 decessi», racconta a Tempi Andrea Bianchessi, responsabile Avsi Kenya, Burundi e Rwanda, una vita nel settore della cooperazione internazionale nei paesi più sconquassati della terra. Vive da cinque anni a Nairobi, dove si occupa di coordinare tutti i progetti dei volontari per l’Africa orientale e meridionale, da lì ha visto l’ondata Covid travolgere le potenze mondiali, colpire il nord e il sud Africa e, il 13 marzo, sbarcare in aeroporto addosso a una ragazza di 27 anni rientrata dagli Stati Uniti il 6 dopo aver fatto scalo a Londra.
«Il 16 marzo sono state chiuse le scuole; il 25 sospesi tutti i voli internazionali; e il 27 è scattato un coprifuoco notturno, seguito da un decreto di chiusura dell’area metropolitana e suburbana della capitale: cessazione di movimenti su strada, clausura domestica dalle sette di sera alle cinque del mattino, chiese chiuse, distanziamento sociale». E funziona? «Lo chieda agli abitanti dello slum di Kibera dove vivono ammassate in baracche 250 mila persone o al mezzo milione di profughi del campo di Daadab al confine con la Somalia».
Non siamo spettatori inermi
Bianchessi ha molto da raccontare ma sa che dalle nostre parti grondiamo numeri e bollettini, «posso dirle che ad oggi in Kenya hanno eseguito oltre diciottomila tamponi o che in Burundi sono stati cento e li hanno già esauriti, ma l’unico numero che dovrebbe far spavento è 50 milioni: è quello della popolazione del Kenya, rappresentato al 50 per cento da ragazzi sotto ai 19 anni. Di questi cinquanta solo tre milioni hanno un contratto di lavoro formale o informale e oggi sono a piedi o con riduzioni di stipendio non inferiori al 50 per cento. Il resto? Fa la fame. In una baracca di due metri per due condivisa con altre cinque o sei persone, il bagno in comune con le baracche circostanti. E senza frigorifero: impensabile oltre che impossibile fare provviste». In poche settimane le misure di contenimento hanno mandato ai pazzi un paese in cui 1,1 milioni di persone vivono senza un regolare accesso al cibo, oltre 500 mila bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione e milioni di famiglie vivono di un’economia di sussistenza, cioè procacciandosi il pane di giorno in giorno. «Qui non esistono ammortizzatori sociali, se si incaglia la filiera agricola, già in sofferenza da un anno, o quella dei trasporti, se chiudi botteghe o blocchi gli ambulanti finisci a contare i cadaveri. L’Africa è il continente delle scelte tremende». Perché allora una raccolta fondi per un ospedale lombardo? «Perché – sorride Bianchessi – qui sappiamo davvero cosa significa che nessuno si salva da solo. Gli amici non sono un branco di spettatori inermi».
Trentadue i paesi poverissimi in cui Avsi è presente da 50 anni realizzando progetti di sviluppo, trentamila i bambini sostenuti a distanza da cittadini italiani, lo zoccolo duro dei quali risiede nella Lombardia massacrata dal virus. «Quando l’Italia è entrata in difficoltà qui si è scatenato un vero e proprio tam tam africano: dall’Uganda, dove le donne di Rose Busingye, infermiera e responsabile Meeting Point International, hanno inziato a mettere via parte del ricavato della vendita delle loro collane per la Lombardia, al nostro Kenya, dove partner storici come l’associazione Don Bosco guidata dall’amico Cyprian ci chiedevano cosa potessero fare per i sostenitori che li avevano aiutati a edificare una scuola elementare e una cooperativa del latte nel villaggio di Mutuati, si è assemblata un’impensabile e spontanea rete di orfanotrofi, case d’accoglienza, scuole, famiglie. Tutti al seguito di una amicizia che rende il bene opera, ciascuno come poteva per restituire una goccia di bene ricevuto».
Dante Alighieri negli slum
Cosa sia nato dal fenomeno di questa amicizia che ha lanciato molti lombardi nell’avventura di fare il bene in Kenya Tempi lo ha raccontato molte volte: adozioni, imprese, assistenza medica, educazione. St. Kizito’s School, Little Prince Primary School, Cardinal Otunga o San Riccardo Pampuri Primary School sono i nomi di scuole che continuano a tirar grandi, adulti e responsabili migliaia di bambini, bambini in cammino come Dante (no, dico, li avete visti recitare l’Inferno a Kibera? Dall’amicizia tra Avsi, la Compagnia degli Incamminati di Milano e la Compagnia delle Albe di Ravenna si è animata la Commedia nel più dantesco degli slum) che hanno smesso di sniffare colla o annidarsi tra i rifiuti per uscire a riveder le stelle.
«La cifra servirà a sostenere l’acquisto di strumentazione clinica (pannelli di digitalizzazione per radiografie a letto) per la cura dei pazienti con coronavirus: è una goccia, ripeto, non proviene da una sommatoria di attività benefiche, bensì da una storia che non prende le distanze dall’uomo e porta sempre a una relazione, dove l’unica legge è quella della reciprocità e della corresponsabilità. E della gratitudine. Nella trincea del Sacco lavorano due medici che per anni sono stati in prima linea nei paesi dove opera Avsi, tra malaria, ebola, aids. E il Sacco si è preso cura di tanti nostri operatori che negli anni hanno contratto malattie infettive in Africa o nel Sud del mondo. Nessuno si salva da solo».
Il sostegno di Avsi oggi è vitale per oltre 900 scuole e 100 mila persone raggiunte in 21 contee e tra le più pericolose baraccopoli del paese, per migliaia di ragazze madri, profughi, malati, indigenti. Mettere in quarantena il bisogno degli ultimi è impossibile, cercare di capire chi si è ricongiunto con parenti o familiari o che ne sia dei bambini seguiti è sempre più complicato. Operatori e volontari stanno ora intensificando gli sforzi per insegnare piccole attività di autosostenibilità, come realizzare mascherine, igienizzanti, sanificanti, spesso sono i bimbi stessi a spiegare a genitori senza acqua corrente che «tutti dovrebbero lavarsi le mani».
Eppure la grande emergenza più che il coronavirus continua a chiamarsi educazione. «Nel campo profughi di Dadaab, da trent’anni il più popoloso insediamento di profughi al mondo, abbiamo tenuto testa al radicalismo e all’arruolamento nelle milizie di Al Shabaab con la scuola. Abbiamo formato duemila docenti, costruito 327 nuove classi, attraverso corsi in lingua somala e, grazie a Dio (e all’abbondanza di smartphone cinesi), ora possiamo proseguire le attività su gruppi Whatsapp e attraverso la piattaforma Zoom. Preziosissima è stata anche la formazione di Avsi ai leader scout: la loro presenza “laica” che da sempre favorisce un contagio positivo tra ragazzi, riportandoli agli studi e proponendo ai coetanei un’amicizia più forte della contropartita offerta dai reclutatori estremisti, è ben tollerata dagli islamici. Oggi sono loro, ragazzini tra gli 8 e il 16 anni, a spiegare come prevenire i contagi, come lavarsi le mani nei punti di accesso all’acqua mantenersi a distanza di un metro l’uno dall’altro nel campo. Non è esattamente come spiegarlo in un oratorio, ma ci stiamo attrezzando. La nostra preoccupazione sono le scuole».
La scuola in Africa ti salva letteralmente la vita, scuola chiusa significa che i più poveri non avranno un pasto garantito per giorni, significa fare la fame, restare soli per ore o ammassati in condizioni disumane, subire violenza nei villaggi, rischiare gravidanze o matrimoni precoci. «La scuola Cardinal Otunga di Nairobi, oggi tra le migliori scuole secondarie del Kenya, ha potuto attivare la didattica a distanza: alcuni insegnanti tengono le lezioni online, tutti i suoi cinquecento studenti scaricano da un sito i compiti la mattina e li inseriscono completati nel pomeriggio. Ma si tratta di un’eccezione, nelle zone rurali manca l’acqua corrente, figuriamoci l’elettricità o la linea internet. Ora il governo avvierà un programma che Avsi ha sperimentato con successo in Costa d’Avorio, didattica a distanza via radio. Ci sono bambini che solo così possono essere raggiunti dai loro insegnanti. E sono milioni quelli a casa».
Il kenyano bloccato a Prato
Mascherine e detergente tra il fango e i liquami, radioline che fanno scuola tra capanne e bestiame, slum di lamiere che diventano case per affamare gli uomini e dove avviare campagne elettorali distribuendo frutta in cambio di voti.
Quanto potrà durare, pur nella capacità di non dubitare mai di ciò che nasce dalla più nuda e cruda privazione e dal bisogno apparentemente senza speranza sfoderata da Avsi in Kenya? Non di rado, in strada a Nairobi, Bianchessi viene chiamato “coronavirus”, untore del virus dei ricchi che viaggiano. A questo strano destino pensa ogni volta che sente Juma al telefono, l’ex ragazzino raccolto in strada a Kibera che dopo aver studiato alla Little Prince e all’Otunga e aver lavorato per l’ambasciata italiana è partito per un master in Italia, «e ora è lì: sopravvissuto ai bassifondi d’Africa per finire bloccato a Prato. Non sappiamo come evolverà la pandemia, ma sappiamo che non ci siamo arrampicati sull’ignoto, a cercare la riscossa dell’umano in Africa nel tentativo di imparare e insegnare a ognuno il suo valore infinito per restare chiusi in casa con la paura del prossimo. Dalla Lombardia alla baraccopoli più misera del Kenya c’è un’amicizia che si è fatta strada in tutto il mondo, per vie misteriose e felici come la più misteriosa delle malattie. Cosa sarebbe la carità, la reciprocità, la corresponsabilità se non vibrasse anche nella malattia, nella povertà, nella meschinità, l’appartenenza a questa amicizia?».
Foto Andrea Signori
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